Le Alpi, e le nostre valli, sono da sempre una terra di confine. Questa posizione garantisce loro l’esposizione a influenze diverse, che ne arricchisce il patrimonio culturale e materiale, ma può rivelarsi pericolosa quando coincide con il punto di tensione tra realtà in conflitto. Questo è quello che accadde un’ottantina di anni fa, quando a scontrarsi sul crinale delle Alpi furono la dittatura nazista e quella fascista, alleate e simili in molti aspetti, ma inevitabilmente in contrasto per altri. Fra questi, rientrava la questione delle popolazioni di lingua tedesca annesse all’Italia in seguito alla Prima guerra mondiale: da una parte, l’integrità territoriale del Regno non poteva essere messa in discussione da Hitler; dall’altra, il nazionalsocialismo reclamava l’integrazione di tutte le popolazioni germanofone nel Reich.
In seguito a lunghe trattative, il 23 giugno 1939 venne raggiunto a Berlino un accordo tra la delegazione italiana e quella tedesca, guidata dal politico nazista e capo delle SS Heinrich Himmler. I cittadini italiani germanofoni avrebbe dovuto scegliere, entro la fine dello stesso anno (ma vennero concesse delle dilazioni per alcune categorie, come i sacerdoti), tra le due alternative: o trasferirsi nel Reich, e diventarne cittadini tedeschi a tutti gli effetti, oppure rimanere in Italia, rinunciando a qualsiasi pretesa di tutela come minoranza, e venendo completamente assimilati. L’accordo venne sottoscritto ufficialmente a Roma il successivo 21 ottobre.
![]() |
Il vescovo di Bressanone Johannes Geisler con alle spalle Luigi (Alois) Pompanin dopo aver optato per la Germania (25 giugno 1940) |
Il trattato non si applicava indiscriminatamente a tutti i cittadini italiani di lingua tedesca, ma entro precisi limiti. In primo luogo, esso includeva solo determinati territori, dichiarati ‘mistilingui’ in quanto popolati da ‘allogeni tedeschi’: l’intera provincia di Bolzano, le zone della provincia di Trento abitate da cimbri e mòcheni, la Val Canale in provincia di Udine - all’epoca a maggioranza tedesca e in buona parte slovena -, e infine i comuni della provincia di Belluno già asburgici: Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia.
La ricomprensione di questi ultimi territori rappresentava in un certo senso un’anomalia, poiché non erano mai stati popolati da genti di lingua tedesca. I loro abitanti utilizzavano da secoli, quale lingua scritta e ufficiale, l’italiano, mentre nella quotidianità venivano parlate le varietà ladine locali. Perché quindi includere tra gli ‘allogeni tedeschi’ questi paesi? In primo luogo, il Reich aveva bisogno di quanti più soldati e lavoratori possibile per realizzare i piani di Hitler. Inoltre, nonostante fossero già passati quasi vent’anni dall’annessione dei paesi alla provincia di Belluno, i loro interessi e legami socioeconomici e culturali restavano fortemente collegati con le terre di lingua tedesca.
Inoltre, già da tempo in quelle comunità - insieme a quelle di Badia, Gardena e Fassa - avevano iniziato a sorgere rivendicazioni di una identità altra, detta ladina, diversa da quelle italiana e tedesca. Roma e Berlino non intendevano di certo assecondare queste ambizioni; al contrario, di questo concetto non si parla mai nei trattati, i quali si riferiscono solo a ‘cittadini italiani’ e ‘alloctoni tedeschi’. Probabilmente fascisti e nazisti speravano di sfruttare le Opzioni per risolvere con un colpo di spugna anche la ‘Questione ladina’. Da parte tedesca era l’occasione per completare la germanizzazione di quelle popolazioni già tirolesi restate di lingua romanza; per Mussolini invece si presentava l’opportunità di sbarazzarsi di quelli che per il console del Regno d’Italia a Innsbruck, Blasco Lanza d’Aieta [1], erano “i peggiori italiani ed i più turbolenti pangermanisti” [2].
![]() |
Ragazzi di Livinallongo e Colle Santa Lucia a Rufach, in Alsazia (giugno 1943) |
Così, in quei pochi mesi, tutte le famiglie di Ampezzo, Livinallongo e Colle dovettero decidere del loro destino, tra pressioni esterne e rovelli interiori. Tra i motivi individuali per partire rientravano le promesse di condizioni economiche migliori una volta giunti in Germania, e infatti a partire furono spesso famiglie povere e molto numerose. Un forte stimolo a lasciare il proprio paese erano anche le angherie e prepotenze degli esponenti del fascismo locali, particolarmente accaniti con i cosiddetti ‘austriacanti’, cioè quelli che rimpiangevano i tempi passati sotto gli Asburgo e auspicavano un ritorno in Austria.
Anche la propaganda nazista cercava di spingere quante più persone all’emigrazione, alimentando voci infondate come quella della ‘minaccia siciliana’, secondo cui coloro che fossero restati in Italia sarebbero stati trasferiti nell’isola, o in un altro luogo dell’Italia meridionale. Il gioco dei tedeschi era sostenuto da organizzazioni pubbliche e agenti privati, più o meno collegati col regime hitleriano. Anche il vescovo di Bressanone, la cui giurisdizione allora comprendeva Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia, sostenne le Opzioni per la Germania, influenzata in questo dal vicario generale della Diocesi, l’ampezzano Luigi (nome di battesimo, poi germanizzato in ‘Alois’) Pompanin. L’odio antiitaliano di quest’uomo lo aveva spinto ad aderire a posizioni pangermanistiche e filonaziste, tanto che in seguito sarà uno dei protagonisti della ratline, la via di fuga per i gerarchi nazisti verso il Sudamerica.
![]() |
La famiglia ampezzana Siorpaes - germanizzata in “Herrland” - a Zill, presso Salisburgo (1944) |
Il 31 dicembre 1939 scaddero i termini per esprimere la propria ‘opzione’, con risultati molto variegati nei diversi territori. Per dare un paragone, in Alto Adige optò per la Germania più dell’80% della popolazione; ben altri furono i numeri dei tre comuni bellunesi. A Livinallongo scelse per l’emigrazione circa un terzo degli abitanti (quasi 700 persone), mentre a Colle Santa Lucia il 18% dei circa 650 residenti. Questi numeri vanno però presi con cautela per la poca affidabilità e coerenza delle fonti e per il clima di tensione e contrapposizioni in cui si svolsero le vicende.
Un discorso a parte merita la situazione ampezzana, per la quale bisogna fare una premessa. Come abbiamo detto, il regime delle opzioni veniva applicato con alcuni limiti: il primo era geografico, nel senso che riguardava esclusivamente alcuni territori; il secondo era personale, perché toccava solo gli abitanti originari del luogo, i veri ‘alloctoni tedeschi’. Questo punto, sebbene di scarso rilievo per la maggior parte delle località coinvolte, era di fondamentale importanza per Ampezzo: infatti, in seguito all’annessione al Regno, il regime fascista aveva avviato una fortissima campagna di promozione delle conca come simbolo dello sport e del turismo italiano, favorendo nel contempo una poderosa immigrazione, specie dal Nord-est. In breve, dei residenti nel comune avevano diritto alla scelta circa due terzi (3.797), mentre i restanti (1.994) non potevano optare, in quanto immigrati completamente italiani.
In ogni caso, anche solo dei veri autoctoni, solo il 4% optò per la Germania. Questo risultato va però, di nuovo, preso con grande cautela: ben più che altrove, il regime fascista aveva interesse a tenere sotto controllo il territorio ampezzano, per ragioni di prestigio e propaganda. Così, i gerarchi fascisti, spalleggiati da parte dell’élite economica locale, organizzarono un Plebiscito dell’italianità del popolo ampezzano: a tutte le famiglie originarie furono consegnati dei fac simile da sottoscrivere, in cui si affermava che la lingua usata in paese, a scuola e in chiesa, era sempre stata quella italiana. Queste dichiarazioni vennero pubblicate e consegnate a Mussolini a Roma, il 18 gennaio 1940.
Cerimonia presso il cimitero militare germanico in Ampezzo (1944)
Oltre a questa operazione propagandistica, pare che i caporioni locali sabotassero le Opzioni in modo più concreto, permettendo agli interessati di recarsi in Comune ad esprimere la loro preferenza solo l’ultimo dei giorni possibili, il 31 dicembre 1939. Il ‘pare’ è necessario, perché i documenti ufficiali riguardanti la faccenda sono oggi irreperibili, e risultavano assenti nell’Archivio comunale già nel 1966, quando venne annotato: “La pratica Optanti per la Germania è scomparsa” [3]. Mancano quindi le premesse per ricostruire i fatti con certezza.
Al di là delle diverse vicende dei singoli territori, ciò che si verificò ovunque fu il nascere di una spaccatura fortissima tra chi aveva scelto la partenza per la Germania e coloro che avevano deciso di rimanere. A Livinallongo, ad esempio, vennero organizzate scuole separate per gli studenti delle famiglie optanti; a Colle Santa Lucia, secondo la testimonianza di un contemporaneo, “I firmatari per la Germania facevano sempre più gruppo a sé [...] si aiutavano nei lavori agricoli, si prestavano a vicenda come padrini [...], amministravano e usufruivano dei beni dei primi espatriati [...]” [4]. Così, tra accuse ed incomprensioni reciproche, le comunità si divisero in due schieramenti opposti, spesso fomentati dalle autorità naziste o fasciste. Riferisce Angelo Dimai ‘Fileno’, rappresentante degli ampezzani optanti per il Reich, in una lettera alle autorità tedesche competenti: “Si chiede di poter partire molto urgentemente [...] Persone del tutto laboriose furono licenziate [...] Gli affari degli optanti sono boicottati in ogni modo [...] Per l’atteggiamento nemico delle autorità parenti ed amici si sentirono indotti a rompere i rapporti con gli optanti” [5].
Un po’ alla volta, tra il 1940 ed il 1943, buona parte degli optanti furono trasferiti in varie parti del Reich, ed in particolare in quei territori (es. Bassa Stiria, Alsazia, Crimea) che erano stati da poco conquistati e che nei piani del regime dovevano essere colonizzati da ‘fedeli tedeschi’. Lo smistamento era preceduto da un periodo di formazione, in cui i nuovi arrivati venivano indottrinati e addestrati. Una volta insediati, gli optanti non trovarono però le idilliache condizioni che erano state loro promesse, né l’accoglienza sperata. Spesso furono colpiti dalla lotta partigiana delle popolazioni locali, le quali avevano subito espropri e ingiustizie da parte dei nazisti in favore degli optanti, ma che si erano organizzate per combattere gli invasori.
![]() |
Messa di ringraziamento per la fine della Seconda guerra mondiale a Corte di Livinallongo |
La frattura tra chi aveva scelto di partire e chi era restato si fece più profonda tra il 1943 ed il 1945, quando le province di Bolzano, Trento e Belluno furono inquadrate nell’Alpenvorland e assoggettate al Reich. L’amministrazione locale fu spesso affidata a persone vicine al movimento degli Optanti, andando così a rimarcare la sovrapposizione tra questi ultimi ed il nazismo, in contrasto con l’’italianità’ di quanti avevano deciso di restare.
Fu proprio in quel torno di anni, tuttavia, che le sorti della guerra si capovolsero in sfavore dei nazifascisti. Man mano che i tedeschi perdevano i territori che avevano da poco conquistato, gli optanti lì insediati venivano spogliati dei loro beni e sfollati. Attraverso avventure spesso rocambolesche gran parte di loro fece ritorno in Italia, dove in molti casi si ritrovarono privi di ogni mezzo di sostentamento dal momento che avevano venduto tutto prima di partire ed erano stati poi additati dai compaesani e dalle autorità come collaborazionisti dei nazisti.
Con il crollo del fascismo e del nazismo e la fine della Seconda guerra mondiale si concluse la vicenda delle Opzioni, che ebbe però lunghi strascichi negli anni seguenti, mescolandosi con l’eredità di violenza e sofferenze di quegli anni. Gli strappi all’interno dei paesi e delle famiglie non furono facilmente rinsaldati, e per chi aveva perso beni e affetti non ci furono ristori.
Quello delle Opzioni in provincia di Belluno è solo un frammento del drammatico periodo che visse l’Europa nell’età dei totalitarismi, ma rappresenta bene alcuni dei suoi aspetti. In particolare, è un esempio di come persone e comunità furono strumentalizzate e sfruttate per ragioni ideologiche e di potere, pagando sulla loro pelle per le follie e gli errori di coloro che avevano visto come guide e salvatori.
A cura di [pgbandion]
NOTE
[2] G. RICHEBUONO, Storia d’Ampezzo, Cortina d’Ampezzo, 2008, p. 590.
[3] G. RICHEBUONO, Storia d’Ampezzo, Cortina d’Ampezzo, 2008, p. 594.
[4] L. PALLA, Opzioni, guerra e resistenza nelle valli ladine. Il diario di Fortunato Favai. Livinallongo 1939.1945, Trento, 2000, p. 33.
[5] L. PALLA, Opzioni, guerra e resistenza nelle valli ladine. Il diario di Fortunato Favai. Livinallongo 1939.1945, Trento, 2000, p. 24.
BIBLIOGRAFIA
G. RICHEBUONO, Storia d’Ampezzo, Cortina d’Ampezzo, 2008;
L. PALLA, Opzioni, guerra e resistenza nelle valli ladine. Il diario di Fortunato Favai. Livinallongo 1939.1945, Trento, 2000.
Commenti
Posta un commento