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Post 192 - Rocca d’Arsié, Storia di una valle stravolta

 


Il lago del Corlo è oggi una meta estiva privilegiata della bassa provincia, che attira visitatori del luogo e da fuori per via delle sue bellezze naturalistiche. L’invaso è l’habitat di molte specie ittiche, tra cui alcune protette, e il luogo è ideale per la nidificazione di svariati uccelli acquatici. Questo ambiente tuttavia è stato creato distruggendone uno più antico e altrettanto ricco. Non tutti sanno infatti che l’invaso della diga ha sommerso quella che un tempo era una florida vallata, modificando per sempre le dinamiche sociali che attorno a essa gravitavano.



Ma andiamo con ordine: prima di tutto qualche pillola di storia. Come ben si può comprendere dal nome, l’abitato di Rocca sorge come fortilizio in epoca altomedievale, essendo questo situato sull’erto sperone del “Col de la Roca”, che tuttora svetta sopra al paese. Il motivo è ben intuibile: difendere la stretta forra scavata dal torrente Cismon, il quale si getta nella Brenta dopo aver percorso il Primiero e attraversato la piana di Fonzaso. Con tutta probabilità, questa fortificazione costituiva un sistema binario con il castello di Incino, paese non distante che guarda direttamente la Valbrenta. Di queste costruzioni, purtroppo, ci è stata tramandata solo la memoria: ne parlano, ad esempio, l’umanista seicentesco Daniello Tomitano e lo storico ottocentesco Antonio Vecellio, che ancora potevano osservarne qualche resto.     
Non scordiamo che tutta quella zona era costellata di fortificazioni, come i famosi Castello della Scala e del Covolo: strutture che servivano a sorvegliare questi punti di passaggio tra le montagne.

Col passare dei secoli andò insediandosi nella vallata una piccola comunità, che progressivamente divenne sempre più numerosa. L’esistenza di un abitato a Rocca ci è testimoniata per vie indirette, grazie a dei documenti risalenti al Duecento che menzionano la bassa valle del Cismon come luogo d’origine di molte persone. Ciò che è certo è che tale presenza umana era sufficiente per fare erigere un piccolo oratorio intitolato ai santi Ippolito e Cassiano, al principio della breve Val Nevèra, che sale verso il Col del Gallo. La prima attestazione di tale edificio è da imputare alla visita pastorale del vescovo Pietro Barozzi, che nel 1488 lo trova bisognoso di un restauro. Egli annota che vi si celebrasse messa soltanto un paio di volte l’anno, segno che la comunità rocchese doveva costantemente recarsi alla chiesa parrocchiale di Arsié. 



“Rocca” è nei fatti un toponimo collettivo, che raccoglie svariati abitati posti nella medesima vallata. Il nucleo più grosso è costituito dalle borgate che si trovano appena a ovest del Col de la Roca, le quali si sfrangiano verso nord in una molteplicità di località puntiformi, fino al Col d’Avig. Segue la miriade di abitati posti lungo la costa occidentale del Col di Baio e, collateralmente, i due avamposti speculari di Corlo e Incino. Alcuni di questi luoghi erano talmente remoti da impedire alle persone di poter partecipare alla vita religiosa della parrocchia arsedese, e di conseguenza di poter ottenere i sacramenti prescritti. Lo scrive con preoccupazione, nel 1676, il vescovo Gregorio Barbarigo: a causa di questi problemi e della popolazione sempre più accresciuta, stabilisce la creazione di una parrocchia che comprendesse tutta la vallata. Nel 1682 viene quindi avviata l’erezione di una nuova chiesa, in quella località che – alla fine dell’Ottocento – diverrà nota col nome de “i Parisi” o “Parigi”. Consacrata l’anno seguente, viene dedicata ai santi già titolari dell’oratorio, più a sant’Antonio da Padova. Ci è nota la consistenza della popolazione nel 1698: tutta la comunità di Rocca contava ben 918 persone.

Evidentemente, in quest’area si viveva abbastanza bene, se il numero degli abitanti cresceva costantemente. Forse anche merito di quella piana ubertosa chiamata Ligónt, di cui parlano più fonti. Ligónt è un toponimo che si ritrova in svariate occasioni in tutto il Feltrino, dal torrente che sgorga nei pressi di Foen e che poi si getta nell’Uniera, alle omonime località situate a Menin e Roncoi; ma in generale lo incontriamo anche nel resto del territorio provinciale, e pure oltre. Citiamo, a titolo esemplificativo, la borgata Ligont di Astragal, in Val di Zoldo, e il corso d’acqua Rug Ligont nel comune friulano di Budoia, ai piedi dell’Altopiano del Cansiglio. In tutti i casi indica un luogo ricco d’acqua, fertile. Nella nostra Piana di Ligónt, infatti, si concentrava la quasi totalità dei campi coltivati e dei frutteti della comunità rocchese. Nel 1816 la popolazione era di 1324 unità, motivo per cui la chiesa parrocchiale cominciava a diventare stretta. Il progetto per un nuovo edificio di culto è presentato nel 1843 dal noto architetto feltrino Giuseppe Segusini, ma ci vorranno altri diciotto anni perché inizi la costruzione. Vivaci dibatti erano sorti circa la zona di edificazione, che si risolveranno nel 1862: il consiglio comunale stabilisce l’erezione nel medesimo luogo della chiesa seicentesca, la cui abside sarebbe divenuta la sagrestia del nuovo edificio. La costruzione fu un processo lungo, e venne portato a termine soltanto nel 1897. Il campanile, invece, è più tardo: divenuto ormai vetusto il castello ligneo che reggeva le campane, si provvide a innalzare l’attuale torre tra il 1927 e il 1940. E tale elemento architettonico è tutto ciò che resta di questa fase costruttiva.



Presto, infatti, la valle sarebbe rimasta stravolta per sempre. Quando Rocca venne collegata ad Arsié con una strada adatta al traffico veicolare, nel 1908, la prima auto ad arrivare qui fu della SADE, la Società Adriatica di Elettricità. L’automobile era un oggetto quasi inedito e infatti furono molte le persone che si riversarono in strada per ammirarla. Sembra di sentire il Racconto del Vajont di Marco Paolini, ma d’altronde alcune costanti si ripetono in queste due storie. A bordo dell’auto c’erano alcuni tecnici della società, venuti a compiere delle valutazioni sulla fattibilità di un bacino idroelettrico proprio nell’area del basso Cismon. Come scegliere un luogo migliore, d’altronde? La Piana del Ligont si era già allagata naturalmente quando, nel 1748, un impetuoso temporale aveva trasportato sassi, tronchi e ramaglie, ostruendo la forra che, tra Corlo e Incino, fa un salto di un centinaio di metri, gettandosi nella sottostante Valbrenta. Il pianoro era stato di conseguenza sommerso, ma l’apporto continuo d’acqua aveva poi fatto esplodere tutto d’un tratto quel tappo di materiale, creando un’onda spaventosa che aveva raso al suolo la chiesa della Madonna di Pedancino e ingrossato la Brenta fino a Bassano. Così era andato distrutto il famoso ponte palladiano, che esisteva da duecento anni. Il numero delle vittime è sconosciuto, ma ci furono.   


Compreso, dunque, che l’invaso era fattibile, i tecnici se ne tornarono da dov’erano venuti e le due guerre mondiali fecero dimenticare ai valligiani questo episodio; ma tutti i dati che erano stati raccolti rimasero a macerare nei cassetti finché, a conflitti terminati, non furono nuovamente utili. Fu proprio la frenetica ricostruzione postbellica a spianare il terreno ad affaristi senza scrupoli. La SADE aveva infatti dato l’appalto in concessione a due ditte diverse, la SMIRREL e la SAICI, le quali, anziché collaborare, si misero a costruire in contemporanea due dighe diverse, distanti trecento metri l’una dall’altra, a partire dal 1949. La cosa, fortunatamente, si risolse in pochi mesi con la fusione in un’unica, nuova, società: la SIIA Basso Cismon. Quest’ultima portò a termine lo sbarramento nel luogo dove lo possiamo vedere tuttora e nel 1955 i lavori, quasi ultimati, passarono in mano alla toscana SELT-Valdarno, che gestirà l’invaso fino alla nascita dell’ENEL nel 1962.

Il conflitto con le popolazioni residenti è immediato. Le ditte appaltatrici non si preoccupano troppo di fornire informazioni e le rimostranze nei confronti della grande opera fioccano agli uffici comunali. Gli espropri, con terreni che vengono pagati a prezzi infimi, erano iniziati già alla fine degli anni Quaranta e i rocchesi, i quali vedono sottrarsi pezzo dopo pezzo la Piana del Ligont, chiedono a gran voce una soluzione. Politici locali di vari partiti promettono la costruzione di una fabbrica, che avrebbe fornito nuove rendite, oltre a sgravi fiscali sull’elettricità. Intanto si avviano le demolizioni: i tecnici, stabilita la dimensione finale del lago artificiale, elaborano una mappa degli abbattimenti necessari, per edifici le cui fondamenta erano considerate troppo vicine all’acqua. Viene così tirata giù senza troppe remore la chiesa segusiniana; gli operai ingaggiati non si preoccupano nemmeno di risparmiare il monumento ai caduti che era stato installato dagli abitanti sulla parete nord dell’edificio al termine della Prima guerra mondiale e che alla fine della demolizione giace, irrecuperabile, a pezzi. Viene smantellato pure l’antico cimitero seicentesco che ancora sorgeva a meridione della chiesa; le tombe sono scoperchiate in fretta  dagli abitanti e i resti dei loro cari riposti in cassettine di zinco. Si distruggono case ai Parisi, ai Carèr e a Cabalàu; scompare l’intera borgata di Giuliàt, la più corposa di quelle settentrionali, demolita pezzo per pezzo assieme alla sua antica fontana ottagonale. Per dare una parvenza di normalità a questa situazione quantomeno discutibile, decisa dall’alto senza interpellare nessuno degli sfrattati, la SELT-Valdarno si incarica di realizzare un nuovo villaggio nell’area precedentemente vuota della Lavina, con diciannove case in cemento armato completate nel 1955. Di che fattura? Già nel 1960 la totalità dei nuovi alloggi presenta fessurazioni preoccupanti nei muri e nei tetti, cedimenti dovuti alla scarsa qualità dei materiali impiegati.



Nel 1954, intanto, l’acqua aveva iniziato ad alzarsi e a sommergere la vallata. Sparisce il Ligont coi suoi campi e i suoi frutteti, scompare sotto la superficie del lago un panorama un tempo urbanizzato. La fabbrica tanto promessa non viene mai realizzata e non vengono attuati nemmeno gli sgravi fiscali. La valle è stravolta: con una modifica così pesante dell’assetto economico preesistente e senza nessun rimedio, a molti tocca emigrare. Dei 2950 abitanti presenti nel 1912, nel 1966 ne restano appena 625. La tendenza non si è invertita, con il passare dei decenni, e oggi vivono a Rocca circa 200 persone.

Della vecchia comunità rimane il campanile merlato, solitario sulla sponda del lago, a imperitura memoria di una compagine umana cancellata.

[ilCervo]


BIBLIOGRAFIA

AA.VV. Guida alle specie ittiche del Bacino di Pesca n.12 “Lago di Corlo e Cismon”, progetto Bioprogramm per la Regione del Veneto, 2016

S. Lancerini, La valle scomparsa, Cittadella, La Brenta Edizioni, 2002

F. Nanfara, Arsiè. Briciole storiche, Rasai di Seren del Grappa, DBS Editore, 1994

G. B. Segato, Monografia di Arsiè, a cura di D. Dall’Agnol, Vicenza, Ergon Edizioni, 2001


SITOGRAFIA

La Difesa del Popolo, https://www.difesapopolo.it/

Storie di Incino e dintorni di Walter Zancanaro, http://walterincino.altervista.org/

Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org/wiki/Main_Page

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