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Post 203 - Il Carnevale di Comelico Superiore

 


Negli anni recenti il Carnevale in Comelico per molti è diventato una cosa quasi sacra: la preparazione, la vestizione, i riti della giornata sono ritenuti necessari e codificati. Guai se il Matazin si siede durante la festa in piazza, non esiste che a Dosoledo la calotta venga assemblata con le punte come a Casamazzagno e Candide, e ancora tante piccole cose che rendono la giornata complicata e magica. Durante la mia ricerca nel mondo dei carnevali europei ho scoperto che in realtà forse sarebbe meglio parlare di una nuova ritualizzazione dei carnevali.


Foto 1: L’arrivo della sfilata nel carnevale di Santa Plonia a Dosoledo

Ma prima partiamo dalla definizione del termine. Oggi il Carnevale si caratterizza per raccogliere una serie di usanze e di pratiche comprese nel periodo tra Epiania e Quaresima.  Ma già si riscontrano dei problemi con l’inizio di detto periodo, dal 7 gennaio è Carnevale? O comincia dopo il 17, giorno di Sant’Antonio Abate? Inoltre qualcuno ha mai sentito parlare delle celebrazioni di mezza Quaresima? Può essere considerato Carnevale anche quello?

L’aspetto temporale non è nemmeno il solo aspetto poco chiaro. Il Carnevale di Viareggio, quello di Rio de Janeiro o quello di Colonia sono assimilabili al Carnevale del Comelico?

Un’altra questione ancora può risultare poco chiara, almeno ad una prima e sommaria osservazione. Come mai, in prevalenza, i carnevali sono sopravvissuti in luoghi permeati dal Cattolicesimo? Non è stata proprio la Chiesa a battersi contro tali manifestazioni pagane?

La prima distinzione che possiamo operare è quella tra i carnevali arcaici e quelli cittadini. Non è una distinzione assoluta, ma ci aiuta a comprendere meglio il discorso. Il Carnevale del Comelico appartiene sicuramente ai carnevali arcaici: essi si ripetono sempre uguali a sé stessi, con delle maschere e dei riti predefiniti;  i carnevali cosiddetti cittadini sono invece ideati per stupire e per rinnovarsi di anno in anno seguendo le tendenze del momento. Gli elementi innovativi e quelli rituali sono comunque presenti in entrambe le categorie, ma l’importanza che gli viene data è diversa e soprattutto è diversa la concezione con cui essi vengono preparati e si svolgono.

Per quanto riguarda la periodizzazione possiamo dire che può cambiare a seconda di quello che noi crediamo essere il Carnevale. Se lo intendiamo come un periodo definito dalla Cristianità, allora tutte le feste tra il periodo natalizio e la Quaresima sono Carnevale, le altre sono feste di altro genere. Se analizziamo invece in maniera qualitativa le caratteristiche comuni allora sia il bruciare una “vécia” “vècia” o “muta” sia a mezza Quaresima sia durante l’Epifania sono manifestazioni del Carnevale. Persino le sfilate dei krampus nei primi giorni di dicembre possono essere considerate Carnevale, e in effetti anche queste derivano da antichi riti di inizio ciclo stagionale come quelli che si svolgono tra febbraio e marzo.

Inoltre, per quanto contraria e ostile ad esso potesse essere la Chiesa cattolica, quasi esclusivamente nei luoghi da questa egemonizzati questa manifestazione è sopravvissuta ed è stata quindi in qualche modo permeata e mitigata da un’ imponente presenza religiosa. Nelle zone investite dalla Riforma protestante, o conquistate dall’Impero ottomano invece l’eccessivo rigore ha ucciso la maggioranza delle manifestazioni carnevalesche di tipo arcaico. 

Il carnevale del Comelico, arcaico, permeato di simbolismi o manierismi al contempo cattolici e pagani e piuttosto codificato dal punto di vista temporale, come gli altri carnevali arcaici costituisce l’evoluzione medievale e moderna di riti pagani risalenti all’antichità, codificati in epoca romana per esempio da queste festività:

  • I lupercali: riti celebrati a febbraio, il mese della purificazione. Prevedevano il sacrificio propiziatorio animale, per lo più di capre e pecore che venivano scuoiate e la cui pelle veniva indossata poi gli uomini partecipanti al rito. La pelle veniva inoltre utilizzata per creare degli “amuleti” propiziatori con cui toccare le donne per renderle feconde.

  • Gli ambarvali: riti che solitamente si celebravano alla fine di maggio, anch'essi erano riti purificativi e propiziatori e prevedevano un sacrificio animale (capra, maiale o toro) dopo averlo condotto per tre volte attorno alla città. Anche l’etimologia della parola ci aiuta a comprenderne meglio il significato. Il prefisso amb- vuol dire ‘attorno’ e arvum significa ‘campo arativo’.

  • I saturnali: si svolgevano a dicembre e annullavano le distanze sociali, gli schiavi erano per la durata delle celebrazioni al pari dei loro padroni e potevano partecipare come uomini liberi ai lauti banchetti organizzati e allo scambio di regali. Parte fondamentale della festa era inoltre una sorta di sfilata per appagare gli spiriti maligni e farli tornare negli inferi permettendo quindi all’anno venturo di essere un anno ricco e prospero per l’agricoltura e per la società.

Quindi con le parole dello studioso Giovanni Kezich:

Sembrerebbe quindi plausibile che queste tre tradizioni, messe fuori legge dagli editti di Teodosio della fine del IV secolo, con l’avanzare della cristianizzazione forzata si siano fuse in un tutt’uno sincretico […]. In questo assetto ridotto ai minimi termini esse avranno poi percorso un lungo periodo in una sorta di clandestinità catacombale: bandite dalla ritualità pubblica, accorpate in un tutt’uno, spogliate dei loro specifici attributi sacrali, ridicolizzate, ghettizzate in una zona grigia del calendario, perseguitate dai potenti improperi di pensatori cristiani del calibro di Agostino e Tertulliano, esse hanno attraversato indenni per più di sei secoli la scomunica della Chiesa cristiana, per poi tornare a vivere di una qualche vita propria, allo scoccare del nuovo millennio, nell’ambito di una sorta di nuovo “compromesso storico” con la religione dominante, che si chiamerà “carnevale”.


Questi riti quindi scompaiono per secoli dalla memoria collettiva ma permangono nella pratica, una sorta di automatismo culturale che codifica e organizza la mascherata.

La prima fase un po’ angosciante deriva dai lupercali: la corsa frenetica e propiziatoria che apre il carnevale con lacchè e matazins di prima mattina attraverso le vie dei paesi, «l’invasione pacifica finché si vuole ma nondimeno inquietante, di personaggi ancestrali misteriosi, rumorosi, tetragoni, che vengono definiti allo stesso modo approssimativo di come si farebbe per qualcuno intravisto sfilare in un sogno, con i sensi intorpiditi, che non sappiamo bene chi è».

La seconda fase è quella cerimoniale della sfilata, più lenta ma non meno festante degli ambarvali. Anch’essa una processione propiziatoria da cui scompaiono ovviamente i sacrifici ma di cui permane il significato. Infine la fase burlesca dei saturnali con le feste in piazza, nelle case o nei locali, gli scherzi e i balli e il consumo di cibi festivi solitamente di tipo cerealicolo.

Ed ecco perché all’inizio dell’articolo avevo accennato alla nuova ritualizzazione del Carnevale. La memoria fallace trasmessa di generazione in generazione dimentica questi secoli di storia, che risalgono all’antichità, e trova nuove motivazioni postume ai gesti cerimoniali. 

Gli anni, le abitudini e il cambiamento sociale ci traghettano quindi a quello che è il Carnevale odierno nei vari paesi del Comelico Superiore. Il più costante e il più conosciuto è quello di Dosoledo soprannominato Santa Plonia (Santa Apollonia). Si svolge sempre la domenica più vicina al 9 di febbraio, giorno di ricorrenza della predetta santa e le maschere principali o “guida” che dir si voglia sono laché, matazin e matazere. Non è un Carnevale itinerante ma rimane sempre localizzato nello stesso paese e le celebrazioni maggiori si hanno in Piazza Tiziano.

I carnevali di Candide e Casamazzagno sono invece itineranti, si spostano in tutti i paesi del Comune in una sfilata intervallata da balli tradizionali propiziatori e con lo scopo di mostrare la propria magnificenza ma anche e soprattutto il proprio riguardo a tutti i paesi. Non compare il lachè nelle maschere principali ma solitamente numerosi matazins e qualche volta la figura femminile della matazina (a Casamazzagno). Solo a Candide sfilano le matazere che non sono presenti a Casamazzagno.

Il Carnevale di Padola è invece stato quello negli ultimi anni più altalenante, qualche volta itinerante come quello di Candide e Casamazzagno, altre stanziale nella piazza principale come quello di Dosoledo, altre ancora, anche in tempi recenti, celebrato come in passato solo nelle case private e nei locali pubblici. Le maschere principali variano anche qui, matazins, a volte matazine, e matazere.

Ad ogni modo tutte le mascherate (mascaradi) cominciano alla stessa maniera: con i paiazi. I primi a presentarsi al trucco sono proprio loro, anche ad orari balordi come le 3 di mattina. Più sono, prima cominciano a truccarsi.


Foto 2: N paiazu


Queste maschere non fanno assolutamente parte della categoria delle maschere guida, dei simboli del Carnevale comeliano, ma sono i loro compagni, i loro protettori e i loro “servitori”. Sono allegri, buffi e canzonatori, ma possono essere anche severi e minacciosi, perché il loro compito è quello di separare gli spettatori dalla mascherata e di permettere a matazere, matazins, matazine e laché di ballare e correre indisturbati.

Sono perennemente in movimento, corrono, saltano, ballano e il richiamo del li sunaieiri avverte chiunque del loro passaggio. Indossano vestiti larghi cuciti con stoffe diverse, di risulta, e non può mancare il decoratissimo cappello e la cana d india che serve a dare ordini alle maschere e anche qualche incoraggiamento.

Sono i primi ad uscire e a svegliare i paesi con le loro grida e lo scampanellare delle sonagliere. Vanno a casa di matazins e matazere (ecc.) e li accompagnano per la prima serie di balli, quelli non ancora parte della sfilata, per scaldare i motori e salutare tutti i bar e i locali del paese.

In ambito storico-antropologico, come tante altre figure che compaiono in questi riti di inizio ciclo stagionale sono in origine personaggi demoniaci: con colori sgargianti, grida e tintinnii sembrano appartenere, per il tempo distinto e inafferrabile della mascherata, ad una dimensione di impunità propria del sovrumano. Ai pagliacci è consentito tutto, sia in ciò che fanno per mantenere l’ordine, sia per animare la festa.


Foto 3: Matazins di Candide

I matazins sono le maschere guida del carnevale comeliano. Devono essere eleganti, belli, mostrare opulenza e sfarzo, ma anche potere e autorità. Sono personaggi benauguranti e stimati, ma, per certi versi, inafferrabili. Non a caso sono a capo delle maschere denominate “da bello”.

Il matazin è sempre scortato dai pagliacci ed esiste e opera in un spazio che non si prende, ma che gli viene creato ad hoc. Guida la mascherata e perciò ne è parte integrante e fondamentale tanto che senza il matazin è impensabile che il carnevale abbia luogo. Riveste quindi un ruolo che lo mette ad un piano diverso rispetto alle altre figure mascherate. Ha dei doveri e degli oneri per cui non può lasciarsi andare: la sua presenza deve sempre essere dignitosa.


Foto 4: Un matazin di Candide

Ci sono diversi tipi di matazins, ma sono tutti caratterizzati da un abbigliamento simile che differisce di pochi significativi dettagli tra un paese e l’altro. La prima cosa che salta all’occhio è il bareton o calota, l’alto copricapo cilindrico ricoperto di velluto e ornato di gioielli, perle e fiori. Sul retro, quasi celati da un imponente fiocco, scendono fin sotto la schiena un centinaio di nastri colorati di seta che rendono speciale il ballo tipico dei matazins, ma che rendono anche il ruolo difficile e fisicamente impegnativo. Il corpo è ornato di fazzoletti cuciti su una camicia bianca, sia sul tronco sia sulle  braccia, per amplificare l’effetto visivo del vortice di colori durante il movimento e che coprono i sonagli posizionati sulla schiena. Il bianco è un colore da sempre legato al sacerdozio, pagano o cristiano, ed è probabilmente dai celebratori degli antichi riti che il matazin nasce e da cui poi si sviluppa per calarsi nel contesto in cui sopravvive e fiorisce. Indossano dei pantaloni bicolore ampi e lunghi fino al ginocchio con calzettoni rigorosamente bianchi e ornati di nastri. Ai piedi infine calzano scarpe nere decorate con fiori di stoffa. Gli indimenticabili accessori sono la bagulina, lo scettro ricoperto diagonalmente di nastri e un portagioie argentato colmo di caramelle da regalare durante la mascherata. Un tempo i matazins indossavano anche il voltu di legno: non era una maschera simile a quelle dei veci (di cui parleremo tra poco), ma presentava lineamenti fini e delicati, la superficie era liscia e gli unici accenni alla mascolinità del personaggio erano pizzetto e baffi che oggi si disegnano con il trucco direttamente sulla pelle.


Foto 5: Lachè e matazin

Ogni paese ha poi il proprio modo di vestire il matazin e le proprie forme diverse di questa maschera. A Dosoledo si esce sempre in coppia: il matazin, vestito di colori più scuri, è accompagnato dal laché con colori più chiari. Hanno due ruoli diversi non tanto nel ballo beneaugurante, ma nella sfilata e nei riti che la precedono. Il laché è il primo ad uscire e a correre e ballare per le vie del paese fino al primo ballo in solitaria in un locale, per poi correre di nuovo a riprendere il matazin per completare il giro delle osterie. Allo stesso modo apre anche di corsa la sfilata e torna indietro, dopo aver compiuto tre salti in piazza, per accompagnare il matazin e cominciare la festa con il primo ballo insieme.

Il copricapo di laché e matazin ha l’estremità dritta coperta di fiori di stoffa e un disegno centrale di perline e brillanti. Inoltre Dosoledo è l’unico paese in cui i fazzoletti sono cuciti anche sul davanti e ricoperti da un bavero bianco. Non c’è mai stata una figura femminile come maschera guida dei “belli”, ma si sono registrati dei momenti in cui la figura, seppur con abiti e trucco maschile, è stata interpretata da una donna.

A Casamazzagno invece è anche presente la figura della matazina: non è ritenuta imprescindibile per la mascherata come quella del matazin, ma è l’unica figura guida femminile del paese più alto di Comelico Superiore.

Le calote, come anche a Candide, sono ornate da 3 specchietti, perle e brillanti e le estremità non sono piatte, ma con punte triangolari per tutta la circonferenza del copricapo. In cima non ci sono rose di stoffa, ma fiori più piccoli e ravvicinati. Matazina a parte, inoltre, escono sempre più di una coppia di matazin, a seconda delle mascherate. Anche qui è presente l’usanza di una figura che esce da sola a dare la sveglia al paese, accompagnata dai pagliacci, e che poi si reca a prendere le altre figure principali.

In comune con Padola, le manifestazioni a Candide e Casamazzagno hanno la vestizione del matazin che ha i fazzoletti cuciti solo nella parte posteriore e dalle spalle sulle mani. La parte anteriore rimane quindi bianca se non per delle collane appuntate sui vestiti e si notano maggiormente le maniche della camicia ornate di pizzo e nastri in posizioni diverse a seconda dei paesi. Inoltre è presente una grossa cintura decorata in vita a cui sono cuciti fazzoletti piegati a metà per formare un triangolo e che coprono parte dei voluminosi calzoni.

Passiamo a Padola che tradizionalmente ha delle coppie di matazins o miste matazin-matazina che portano copricapi diritti e con disegni di forme geometriche. La parola matazin non si usa se non nell’ambito proprio del carnevale: il termine è totalmente e univocamente legato al personaggio tradizionale e non si usa in altro contesti. Per questo per i Comeliani è difficile dire da dove viene questa parola. Gli studiosi Giovanni Kezich e Gianluigi Secco ci aiutano in questo senso anche se nemmeno loro sono totalmente d’accordo.

Per Kezich il significato di matazin è “un tale”:

Altre volte ancora, gli incursori misteriosi sono gratificati con un titolo sibillino, quello di «matto», in una sua accezione desueta che non significa «pazzo» ma «un tale», «un tizio», «quello là». Esemplare, a questo proposito, è la qualifica di «matòcio» che vediamo in uso a Valfloriana, echeggiata da una serie infinita di varianti in ambito dolomitico e alpino, sul genere di matiél a Canale d’Agordo, matathìn a Comelico Superiore, matazini a Carano, matòch in Valtellina, oltre che dei classici mattaccini rinascimentali che troviamo documentati a Venezia, a Firenze nei Canti carnascialeschi come pure in un’antica «magistratura» del gioco del ponte a Pisa.

Secondo Gianluigi Secco invece la radice mata  deriva da “matto, pazzo, ‘diverso’ ovvero ‘morto che torna’.

Passiamo ora alle più nuove figure principali del Carnevale comeliano e che sono le guide delle maschere “da vecchio”: le matazere. Nel 2017, durante la più recente mascherata di Candide, un carro ricordava i 65 anni dalla nascita di questa maschera che arriva proprio da una famiglia di Candide. Si dice che la loro evoluzione passi dal matazei, una sorta di parodia del matazin che guidava le maschere “da vecchio”. Nelle foto degli anni Trenta e Quaranta, si possono infatti vedere delle figure simili al matazin ma con calote più basse, meno curati e con colori meno brillanti. Probabilmente, per rappresentare la fame e la miseria, da sempre figure femminili, questa figura si è evoluta fino a diventare un matazin “povero” e femminile, ma ancora affidato a uomini. Si dice infatti che il primo a vestirsi da matazera fu un uomo a cui non era stato permesso di fare il matazin.


Foto 6: Prima matazera di Candide 1954

Sta di fatto che questa figura femminile venne, col tempo, affidata esclusivamente alle donne. Con l’avvento delle matazere le maschere “da brutto” ritrovano una nuova importanza e il matazin deve oggi dividere il trono con la matazera. Questo però, come già accennato, non accade a Casamazzagno che ha mantenuto l’impianto carnevalesco di un tempo.

Esse portano la gonna al posto dei calzoni e il colore distintivo per loro non è il bianco, ma il nero. I fazzoletti sono di colori scuri e tetri, come la calotta e i nastri. Ai piedi portano gli scarpeti tipiche calzature di un tempo e non hanno la bagulina, ma la bala dal café, l’attrezzo con cui una volta si tostavano i chicchi di caffè sul fuoco. Anche le caramelle che offrono sono diverse, non zuccherini colorati, ma tipi di caramelle considerate più “povere”. A Padola e a Candide la gonna è ricoperta di cravatte e anche i nastri sono sostituiti con queste ultime e sul davanti, sempre sgombro di fazzoletti, vengono appuntate collane di materiali poveri come la pasta.


Foto 7: Matazere di Candide


Foto 8: Matazere di Dosoledo


Le matazere, essendo “figlie” dei matazin, recano le stesse differenze da un paese all’altro.

Per entrambi i personaggi il momento della vestizione è lungo, complesso e dimostra appieno la devozione del Comelico per queste maschere. Di anno in anno i vestiti sono disfatti e ricuciti a mano su misura per ogni ballerino. La preparazione comincia nei mesi prima della mascherata con la costruzione del bareton da parte degli stessi figuranti, mentre i fazzoletti sono rammendati o ne vengono comprati di nuovi per sostituire quelli troppo danneggiati degli anni precedenti. Poi cominciano a prendersi le misure dei matazins e delle matazere, si scelgono i fazzoletti in base al numero necessario alla vestizione e alle colorazioni delle varie figure e si comincia a cucire. Non tutto però è preparato in anticipo: un grande lavoro viene infatti portato avanti il giorno della sfilata stessa in cui solitamente delle donne cominciano all’alba ad assemblare il tutto. Per la vestizione di ogni maschera ci vuole circa un’ora di lavoro incessante.


Foto 9: Veci

Siamo ora giunti al corpo della mascherata: le maschere sociali. Queste si chiamano così perché in qualche modo sono lo specchio della società di cui fanno parte. Si dividono in due categorie: le maschere cosiddette “da bello” e quelle “da brutto” o “da vecchio”. Le prime seguono in corteo e semanticamente i matazins, sono le maschere con i vestiti più pregiati e simboleggiano ricchezza e prosperità. Le seconde invece seguono le matazere e sono maschere spesso più buffe, anche con un velo di satira e di presa in giro; con i loro volti intagliati nel legno formano espressioni buffe, tetre e precise e ricordano persone in carne ed ossa, magari con i tratti peculiari accentuati, rappresentano povertà e miseria.


Foto 10: Maschere da bello

Per quanto sulla carta questa divisione sia netta, non è proprio così nella realtà dei fatti. Un volto ligneo può essere posto su una maschera della categoria dei belli e una maschera invece brutta potrebbe non indossarlo. Sta ai pagliacci capire cosa quella maschera rappresenta e, ancora una volta, spetta a loro il ruolo di mettere ordine e distanziare le varie parti, specialmente nella sfilata.

Per ultimi sfilano i carri, una categoria mista e non ben distinta che probabilmente è di nuova concezione.


Foto 11: I musicanti in sfilata

Niente avrebbe però senso senza la musica. Non è solo la colonna sonora dell’evento, è il cuore del rito stesso. Senza la musica le movenze di matazins e matazere non sarebbero eleganti ed ipnotiche, ma ridicole e insensate, la sfilata non avrebbe la stessa allegria e il ballo non avvicinerebbe le persone. 

Le melodie tradizionali comelicesi hanno influssi mitteleuropei e italiani, sono ancora oggi tramandate oralmente e ciò fa sì che ogni generazione possa lasciare la sua impronta sulla musica, perché, pur suonando lo stesso pezzo e con la stessa melodia, le flessioni stilistiche sono nettamente distinguibili. Probabilmente gli strumenti utilizzati sono di matrice ottocentesca poiché sono stati completamente abbandonati i fiati che si pensava fossero dominanti precedentemente. Suonano ogni anno a carnevale, e non solo, fisarmoniche, chitarre, contrabbassi e violini. Rispetto alla musica classica il suono deve essere “sporcato”, reso più rustico e primitivo per consentire una giusta e forse anche una maggiore interpretazione.

I principali generi sono la polka, il valzer, la mazurca ed il paris, riportato in vita dalla ricerca dei Legar gruppo folkloristico di Casamazzagno. Alcune delle musiche provengono da altri contesti e sono state importate, altre invece sono creature di musicisti locali che sono, nel tempo, divenute parte della tradizione.


Foto 12: La confusione del ballo

E parlando della musica non possiamo tralasciare il ballo, anch’esso tassello fondamentale della mascherata. Un tempo, quando probabilmente si imparava a ballare a casa e, soprattutto nei primi anni, si rimaneva nei propri paesi, anche lo stile del ballo cambiava. Ancora oggi si possono notare delle differenze. Se a Dosoledo la vecia (la polka saltata) si balla saltando pochissimo, anzi, spesso enfatizzando il momento del salto avvicinandosi verso il basso, a Candide e Casamazzagno il salto è più accentuato anche dalla postura dei piedi sulle punte. A Padola invece si balla con la pianta del piede ed enfatizzando il momento del salto. Probabilmente, ma questa rimane un'ipotesi, la conformazione dei luoghi di ballo e della mascherata ha influito nel creare queste piccole differenze.


Foto 13: La vecia dal matazin

E parlando di musica e ballo non si possono dimenticare le canzoni legate ai balli di matazins e matazere, sempre quelle ma con coreografie e stili diversi. Immancabile è sempre il salto all’inizio del ballo e ripetuto un numero variabile di volte prima della fine che accende la piazza a suon di particolari incitamenti e urla e che è considerato come un gesto propiziatorio.

Ma un tempo, come si svolgeva questo rito? Allo stesso modo? La risposta è non proprio. Le maschere principali erano le stesse, ma la mascherata non era considerata una cosa da bambini, e questi potevano partecipare solo in momenti separati o durante la mezza Quaresima. Il rito era infatti necessario al corteggiamento, si girava nelle case e i matazin erano accolti di buon grado dalle famiglie. Si ballava e si suonava delle lobie o lode (corridoi di metratura importante nelle vecchie case del rifabbrico) e nelle stue (i salotti). A girare erano quasi esclusivamente uomini, alle donne in età da marito non era permesso partecipare al Carnevale, ma potevano aspettare in casa l’arrivo dei ragazzi resi anonimi di volti e dai travestimenti. L’anonimato era una parte fondamentale del mascheramento. I volti venivano scambiati, quindi, pur riconoscendone le fattezze non si poteva sapere per certo chi c’era al di sotto. Questo consentiva una certa libertà e un’impunità agognata. Se un ragazzo però ballava per più di tre volte con la stessa ragazza il privilegio dell’anonimato decadeva e i padroni della casa richiedevano di conoscere l’identità del corteggiatore insistente. 

Per quanto riguarda il divieto alle donne, la maschera permetteva anche a loro una certa libertà, in tutto il Comelico ci sono testimonianze di donne che, vestite da uomini, partecipavano al Carnevale. Dopotutto, come si faceva a controllarle?

Negli ultimi anni si nota sempre di più l’utilizzo del comeliano nel giorno della mascherata, se un tempo, quando la lingua del Comelico era utilizzata giornalmente, non era necessario rimarcarne l’esistenza con cartelli o esclamazioni durante il carnevale. Oggi questo è cambiato. Anche chi non utilizza nella quotidianità il ladino, durante la mascherata si sente libero, e forse quasi in dovere, di farlo. Potremmo dire che essa è un safe space per una lingua minoritaria in declino e che, oltre ai tradizionali incoraggiamenti di “oi che bela!” e “viva li mascri” o all’invito perentorio utilizzato per far muovere in cerchio i ballerini “tond al balu”, si vede in maniera preponderante in maschere da bello, da vecchio e nei carri. Quasi che, in una giornata o in un momento permeato di tradizioni, non potesse mancare la lingua che ha visto nascere quelle tradizioni e che è l’unica in grado di continuare a comunicarle.

Una considerazione conclusiva. La tradizione, per rimanere viva, ha comunque bisogno di rinnovarsi e di cambiare. L’introduzione delle matazere, nel secondo dopoguerra, ha fatto nascere delle discussioni in quest’ambito di studio, perché con esse veniva introdotto un elemento non originario, non filologico. Però, benché la ricerca e la conoscenza delle radici del rito carnevalesco comeliano siano necessarie e auspicabili, è impensabile che una tradizione immateriale si trasmetta sempre uguale a se stessa. Probabilmente senza l’ammissione delle donne nella mascherata, oggi questa sarebbe solo un ricordo, e non una realtà viva. Andando alla ricerca dello storicismo dei libri si rischia di perdere presente e futuro. Questo vale anche per il ladino: benché ammirevole e perfettamente logico, l’utilizzo del comeliano non può fermarsi al momento della mascherata, né rimanere relegato agli studi di linguistica.

E il vostro Carnevale di che tipo è? C’è qualche somiglianza o analogia con quello che vi abbiamo raccontato?


[Pinter]


Per quanto riguarda le fotografie ringraziamo l’associazione “Chei d Santa Plonia” e Foto Zambelli. Al sito https://www.cheidsantaplonia.it/ potete trovare tutte le foto del carnevale di Dosoledo e tante notizie interessanti.

I seguenti link vi permettono di vedere lo svolgimento della mascherata nel Comelico superiore:

https://www.youtube.com/watch?v=dMQ90yWN7FA

https://www.youtube.com/watch?v=nv_7Est_HQ4

https://www.youtube.com/watch?v=eypJRhfI2wE&t=139s

https://www.youtube.com/watch?v=aCK1qE9nTiY


NOTE:

  1. KEIZICH Giovanni, Carnevale, la festa del mondo, Roma-Bari, 2021, p. 33.
  2. Ivi, p. 41.
  3. SECCO Gianluigi, Mata, la tradizione popolare e gli straordinari personaggi dei Carnevali arcaici delle montagne venete, Belluno, 2001, p. 100-101.
  4. KEIZICH G., Carnevale, la festa del mondo, p. 42
  5. SECCO G., Mata, la tradizione popolare e gli straordinari personaggi dei Carnevali arcaici delle montagne venete, p. 106.
  6. Questa in parte anche la tesi di SECCO G., Mata, la tradizione popolare e gli straordinari personaggi dei Carnevali arcaici delle montagne venete.
  7. Convenzione di Faro consultabile qui: https://www.journalchc.com/wp-content/uploads/2020/08/Convenzione-di-Faro.pdf

BIBLIOGRAFIA:

KEIZICH Giovanni, Carnevale, la festa del mondo, Roma-Bari, 2021

SECCO Gianluigi, Mata, la tradizione popolare e gli straordinari personaggi dei Carnevali arcaici delle montagne venete, Belluno, 2001

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