Passa ai contenuti principali

Post 181 - Eppure battono alla porta, il racconto di Dino Buzzati e gli spiriti di Gron



Eppure battono alla porta: il racconto di Buzzati e le superstizioni fluviali di Gron.

Con un saggio antropologico di Angela Nardo Cibele


Chi è Dino Buzzati Traverso, ma soprattutto: qual è il suo legame con il territorio bellunese? Dino Buzzati nasce a San Pellegrino nel 1906, nella villa di famiglia che sorge a pochi metri dalle rive della Piave. Naturalizzato milanese, entra nel Corriere della Sera nel 1928 come cronista, quasi certo, dichiara all’amico Arturo Brambilla, di andare incontro a un «fiasco fenomenale» e che quella non sia «la via per [lui]» [1].

Nel 1933, in preda allo sconforto che gli causa lavorare al Corriere, pubblica il primo romanzo, Bàrnabo delle montagne: addetto anche agli articoli della colonna letteraria del giornale, matura un certo sconforto nei confronti della letteratura, che gli sembra «la continua rielaborazione dei soliti temi» [2], e conseguentemente matura il sentimento di voler scrivere qualcosa di nuovo e personale:

«A proposito, tanto te lo voglio dire, perché non ne farò più niente (lo vedo bene eppure anche dicendotelo spero che non sia) nelle mie ambizioni letterarie pensavo che unico argomento libero e vergine è la montagna, motivo che bisognerebbe innestare a qualche passione umana perché non rimanesse freddo o inesprimibile. Ecco per far capire cosa sia la montagna bisogna raccontare una storia dove la montagna non sia l'oggetto principale ma si riveli poi da sola semplicemente. Pensa e ripensa un abbozzo di soggetto l'avevo trovato; poi ripensandoci era una cosa pietosa.» [3]

Nel corso della sua lunga carriera letteraria, Dino pubblicherà altri celebri romanzi che tutti conosciamo, tra cui il famosissimo Deserto dei tartari del 1940. Ma la sua produzione più estesa sono le novelle: vince infatti il Premio Strega con Sessanta racconti, la più famosa raccolta di prosa breve dell’autore, che vede la luce nel 1958.

Immagine 1: Le palais hanté, Dino Buzzati 1923. Nella parte bassa del dipinto, versi tratti da un poemetto di E. A. Poe.

In questo articolo analizzeremo il racconto Eppure battono alla porta, pubblicato per la prima volta sulla rivista La Lettura nel settembre del 1937, successivamente inserito dall’autore nelle raccolte I sette messaggeri (1942), poi in Sessanta racconti, e quindi in La boutique del mistero (1968).

Gli anni formativi del giovane autore vengono spesi in gran parte nel Bellunese, tra la villa di famiglia a San Pellegrino, le avventure vissute assieme ai fratelli e ai figli dei coloni sul greto della Piave, le imprese alpinistiche compiute sulle Dolomiti in compagnia di amici ma soprattutto di esperte guide alpine che ammirava da sempre. Bisogna partire da questo per capire come parte del patrimonio culturale del territorio sia stato assimilato da Buzzati ed eventualmente trasposto nella sua opera.

Anche il nonno e il padre di Dino (Augusto e Giulio Cesare Buzzati) avevano coltivato un profondo amore ed interesse per l’antropologia bellunese e gli autori nativi, mettendo assieme una vastissima e importante biblioteca, la cosiddetta Biblioteca Bellunensis: migliaia di scritti e opere di autori bellunesi o che riguardavano il territorio, accessibile quotidianamente al giovane Dino.

La novella Eppure battono alla porta affronta varie tematiche: da un lato l’antitesi tra nobiltà, borghesia e popolo; dall’altro subentra il regime del magico macabro, degli spiriti e della morte, che ricorre spesso nella produzione buzzatiana. Inoltre, il racconto ha luogo in una ambientazione caratteristica del territorio della Valbelluna nelle sue particolarità: la villa in riva al fiume, simile, d’altro canto, alla villa di San Pellegrino. Analizziamo questa novella perché si riscontrano una serie di somiglianze con il saggio dell'antropologa veneziana Angela Nardo Cibele (1850-1938) Acque pregiudizi e leggende bellunesi, uscito alla fine dell’Ottocento, specificamente nel 1888, dove la studiosa 

«Prima di venire a leggende particolari che si riferiscono ai fiumi del Bellunese, regione idrograficamente importantissima, perché percorsa dal Piave, che dire si potrebbe il padre dei veneti fiumi, e degli altri suoi maggiori confluenti il Cordevole, il Maè, il Boite, l’Anziei e dal Cismon che le scorre accanto, [cerca] di riunire le […] idee generali, che ha sulle acque il contadino bellunese» [4].

Inoltre, nel saggio è menzionata la biblioteca bellunese di villa Buzzati e vi troviamo una fiaba in dialetto bellunese raccolta da Giulio Cesare Buzzati: L’egua dele bele sete vele. Lo studio raccoglie le credenze e le leggende popolari che i contadini bellunesi usavano raccontare a proposito dei fiumi e dei torrenti che lambiscono tutt’ora il territorio, evidenziandone l’importanza e la preponderanza nella quotidianità dei bellunesi.

Lo stesso Dino Buzzati era uno di quei «bimbi che all’estate si tuffano rincorrendosi nelle acque» [5], di cui parla con trasporto Nardo Cibele nel suo saggio. Angela Nardo Cibele dedica buona parte della sua produzione alle tradizioni e agli usi popolari di Belluno e della sua provincia; collabora con varie famiglie bellunesi, presso cui si fa ospitare, specialmente da famiglie benestanti dotate di coloni alle proprie dipendenze, in modo da poterli intervistare e raccogliere le leggende, le narrazioni e la saggezza popolare che custodivano. È certo che sia stata ospite della famiglia Buzzati, al punto da conoscere personalmente e collaborare con Giulio Cesare Buzzati, padre di Dino, che chiama affettuosamente Gino, soprannome usato dalla moglie.


Immagine 2: Villa Agosti Bacchetti a Belvedere di Gron

Protagonista della novella è la nobile famiglia Gron: Maria, il marito Stefano, i due figli Federico e Giorgina; l’amico dottor Martora e il giovane Massigher, borghese. È notte e «nonostante le finestre sprangate giunge dall’esterno un ininterrotto scroscio di pioggia». L’intera narrazione è ambientata nel salotto della villa dei Gron, a ridosso di un fiume non meglio indicato. Massigher, che si unisce più tardi al rendevous, porta la spiacevole notizia che il fiume ha rotto l’argine. Parla anche di spiriti, il ragazzo, di aver sentito «dei passi, come… dei passi ben distinti sulla ghiaietta del viale…» mentre si avvicinava al portone dei Gron per metterli in allerta. Anche i coloni al servizio della nobile famiglia provano ad avvertire i padroni del pericolo imminente prima di fuggire dal luogo, ma gli avvertimenti non vengono recepiti e la famiglia non abbandona la casa. I tonfi causati dall'esondazione che divora la terra si fanno sempre più difficili da ignorare, sino a che finalmente l’acqua fa la sua comparsa sulla scena, «lentamente, strisciando sul pavimento, un’informe cosa nera». E, strisciando, il terrore si insinua anche nei cuori dei nobili troppo superiori alle «solite paure dei contadini», che ormai da un pezzo erano fuggiti, assieme alla servitù. Al tragico termine della narrazione, è Massigher ad avvertire la compagnia che «c’è qualcuno che bussa alla porta: […] Un messaggero forse, uno spirito, un’anima, venuta ad avvertire. È una casa di signori, questa. Ci usano dei riguardi, alle volte, quelli dell’altro mondo» [6].

Colpisce, per quanto concerne il nostro interesse antropologico, l’uso del toponimo “Gron” riferito al nome della nobile famiglia protagonista del racconto, e forse ancora di più le coincidenze tra la descrizione della villa e la localizzazione geografica della frazione omonima: a sud di Sospirolo, comune in provincia di Belluno, sorge infatti la località Gron, su un pianoro alla sinistra orografica del torrente Mis. Poche centinaia di metri a sud della frazione, il Mis si getta nel Cordevole, principale affluente del fiume Piave. Il territorio comunale di Sospirolo ospita numerose ville venete, in particolar modo a Gron si trovano Villa Buzzatti Ferrante (XIX sec.) e Villa Agosti Bacchetti a Belvedere di Gron (XVII sec.), a ridosso del Cordevole. Secondo la tradizione popolare studiata da Nardo Cibele, i due torrenti sono corsi d’acqua malevoli:

«Ha, nella tradizione popolare, proprietà speciali e nocive l’acqua del Mis, fiume-torrente, il quale discende dall’Agordino e sbocca nel Cordevole. Esso è famoso per la tempesta che mena e si dice nel Canal del Mis esservi due vecchi, che fabbricano la tempesta.

El Cordevole de magio ciama sete anime, carne de cristian, al giorno. (Gron)

L’acqua del Cordevole l’è un’acqua barona. El Cordevole l’è fiume mas’cio

 (maschio): (si noti la forza di questa eloquente distinzione di sesso), el vien do passando per le miniere de Agordo e la so acqua sa da solfero e fero.» [7]


Immagine 3: da La famosa invasione degli orsi in Sicilia,

“Rocca Demona” popolata dai fantasmi, Dino Buzzati.

Inoltre, Nardo Cibele compone un poema dedicato alla località di Gron come ringraziamento per l’ospitalità dimostratale dai conti Agosti, «la cui villa severa, posta quasi sulla sponda del Cordevole, è per poco discosta da quella amenissima del signor Paolo Buzzatti:

E poiché a Gron i contadini parlano di spiriti bianchi e di misteriosi sussurri, io mi sono ispirata a due ritratti della famiglia Agosti: a quello di una bionda contessa e di una suora ardita, ed in memoria dell’amenissimo sito dettai i versi che seguono:

GRON (Agrone)

Nell’ampia valle, su l’erte cime

Sui poggi verdi, dardeggia il sol,

E nell’aperto cielo sublime

Si libra un’aquila sull’ali al vol.

Sovra il suo bianco letto fuggevole 5

Brillante d’iridi tra i sassi e i fior,

In alto metro, canta il Cordevole

Una bizzarra canzone d’amor.

S’anco di Cornia, la Val deserta

Si lascia a tergo l’austera Gron 10

Lieto è il viandante che l’ama incerta

Segnò sul dorso pria del Duron.

Due ville in vista, suore gentili

Sembrano il sito signoreggiar,

Una ti parla di miti aprili 15

L’altra dei mesti di che passar.

Di laghi, d’ombre, d’echi e splendori

D’augelli e pesci, di giuochi e fior

Ricca è la prima; di trovatori

Un nido sembra sacro all’amor. 20

Austera e verde l’altra sorella,

Disdegna i ninnoli che non cercò,

De’ suoi ricordi tenera e bella

Sembra una vedova che molto amò;

E nelle placide sere di luna 25

Confonda il fremito del suo pensier

A quel torrente che i suoni aduna

In un terribile inno guerrier.

Ma se si addensano tra gli erti spechi

Frotte di nubi venti e fragro, 30

A quei del cielo rispondo gli echi

Di Gron severa, strani rumor!

Là per le vuote sale, errabondi

S’odon fantasmi a volteggiar

Mettono gridi alti o profondi 35

Vanno le chiuse porte a picchiar;

Ed al bagliore de’ lampi, stanno 

Sovra un poggiolo chinato il sen

Due donne giovani, sfidando il danno

Della procella che innanzi vien. 40

Bionda e gentile è la Signora

Nell’ampia veste broccata d’or,

Chiusa e severa appar la Suora

Nel nero sajo, espïator.

Quella nel cerulo occhio mondano 45

Ha una tristezza che il coro non sa;

Mentre non teme sguardo profano 

L’ardita Suora, in sua beltà.

Suora nell’occhio brillante e nero

Tradisci arcani che non vuoi dir, 50

Gelosa sempre di quel mistero

Che troppo in vita ti fé soffrir!

Che mai favella sommessa ed umile

Quella elegante damina a te?

Perché nel turbine della volubile 55

Sua vita, trarre ti vuol con sé?

O mie gentili, male il destino

In questa tarda ora vi unì!

Troppo diverso l’aspro cammino

Fu che a ciascuna la vita ordì! 60

Or nelle torbide notti il mistero

Svelate insieme del giovin cor,

E sulle labbra corre il pensiero

Che vi fa bella la morte ancor.

Così le ville, suore gentili 65

Sembrano il sito signoreggiar;

Ma parla l’una di lieti aprili.

L’altra dei mesti dì che passar!

ANGELA NARDO CIBELE [8]

Il poema parla di due ville abitate da due sorelle, colpite da un temporale che fa agitare i fantasmi che vanno «le chiuse porte a picchiar» e a cui le due donne cercano di opporsi nonostante il triste esito della loro resistenza. Seguono quindi nel saggio, dopo il poema, due capitoli che registrano una leggenda legata all’antica Cornia (poco distante da Gron) e una fiaba raccolta da Giulio Cesare Buzzati, da grande appassionato di antropologia ed etnografia bellunese qual era: L’egua dele bele sete vele (che ha tra l’altro molti motivi in comune con la sessantunesima delle Fiabe Italiane raccolte da Calvino).

Immagine 4: Villa Buzzati a San Pellegrino, con le Dolomiti bellunesi sullo sfondo.

Sono molte le coincidenze tra le testimonianze raccolte da Nardo Cibele, i versi della studiosa e la novella di Buzzati Eppure battono alla porta: già dal titolo il racconto sembra avvicinarsi ai fantasmi che nell’inno di Nardo Cibele “picchiano le porte”, e anche nella novella sono proprio gli spiriti che battono alla porta della villa della famiglia Gron per venire a prendere le anime dei familiari e degli amici riuniti a giocare a bridge i quali si rifiutano di abbandonare la villa, villa che sorge sulle rive di un fiume che nella notte tempestosa rompe gli argini e invade le mura domestiche. Il rifiuto di cedere alla paura da parte soprattutto della altezzosa Maria Gron è dettato specialmente dalla convinzione che la paura dei disastri atmosferici sia solo dei contadini e della povera gente, e che le disgrazie possano colpire solo loro. Contadini e servitù, guidati dalla loro saggezza popolare, durante il racconto mettono più volte in guardia i proprietari della villa, infine scappando e salvandosi, abbandonando al loro vuoto orgoglio aristocratico Maria Gron con la famiglia e gli amici. Le coincidenze riscontrate tra la novella e quanto riportato da Nardo Cibele sono sembrate lampanti, e suggerirebbero che il giovane Dino durante le sue permanenze estive in villa San Pellegrino avesse letto gli scritti dell’antropologa, assimilandone i contenuti e trasponendoli nella sua opera, rendendo il patrimonio culturale del Bellunese accessibile ad un pubblico nazionale. 

A cura di [Camilla]



NOTE

[1] D. Buzzati, Lettere a Brambilla, p. 187.

[2] Ivi, p. 203.

[3] Ibidem.

[4] A. Nardo Cibele, G. C. Buzzati, Acque pregiudizi e leggende bellunesi, p. 7.

[5] Ivi, p. 28.

[6] D. Buzzati, Sessanta racconti, pp. 70-75.

[7] A. Nardo Cibele, Acque pregiudizi e leggende bellunesi, p. 15.

[8] Ivi, pp. 40-42.



BIBLIOGRAFIA

BUZZATI, D., Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Novara, De Agostini, 1985.

BUZZATI, D., Sessanta racconti, Milano, Mondadori, ed. 1995, (prima ed. 1958).

NARDO-CIBELE, A., Acque pregiudizi e leggende bellunesi, (1888), estratto da «Archivio per le tradizioni popolari», Arnaldo Forni, 1982.

 

 


 

Commenti

Post popolari in questo blog

Post 38 – Il Sas del Diàol, a Facen

  Oggi vi parliamo di un misterioso masso inciso!  Si chiama “ Sas di Pirulava ” o più notoriamente “ Sas del Diaol ”, ed è stato scoperto da Candido Greco nel 1977, studioso che ci ha fornito la prima descrizione delle incisioni presenti. Il masso è di dimensioni di circa 90 x 110 cm ed è leggibile solo nella faccia orientata verso sud-est. Presenta una decina di segni a forma di croce, di cui tre che poggiano su dei cerchi contenenti altre croci di dimensioni minori e quella che sembra una lettera “A”. Greco interpreta le iscrizioni come simboli preromani, individuando dei numeri etruschi dei quali i Reti si sarebbero serviti per misurare le libbre di fieno tagliato in loco. Inoltre altri simboli parrebbero legati al culto di Mitra.  Nelle note del testo, inoltre, vengono presentati a titolo esemplificativo e comparativo ulteriori massi che riportano croci incise, ma dotati anche di coppelle. Un appunto: nel testo si fa riferimento a questo masso come quello che secondo la leggenda s

Post 147 - La chiesa della discordia

  In alcuni post precedenti ( post 123 e 124 ) abbiamo ricostruito la storia delle frane dell’Antelao che hanno coinvolto Borca e San Vito. Durante la frana del 7 luglio 1737, stando alle memorie del pievano Bartolomeo Zambelli, il primo edificio a restar sotterrato fu la chiesa di San Canciano che sorgeva sul confine tra Borca e San Vito, chiesa che fu in seguito ricostruita accanto all’antica Strada regia ( post 101 e 102 ), nel territorio di San Vito, ad una novantina di metri dal confine. Ne nacque molto tempo dopo una contesa, di cui vi parleremo oggi. La storia della chiesa di San Canciano è assai antica. Vi è infatti un atto notarile datato 1418 rogato dal notaio Bartolomeo fu ser Ungaro in cui il testatore lega due prati in val di Tiera al lume di San Canciano: in altre parole si lasciava per testamento due prati alla suddetta chiesa perché col ricavato si mantenesse un lume acceso per il santo [1]. Dai documenti delle visite pastorali del 1604 conservati nell’Archivio della Cu

Post 104 – Il colle delle ville. Prima parte.

  La nostra provincia è principalmente nota (se davvero è nota per qualcosa) per le sue splendide catene montuose. Meno noti potrebbero essere invece gli intriganti paesaggi rurali della Valbelluna, valle collocata tra le Prealpi e le Dolomiti e percorsa in quasi tutta la sua lunghezza dal fiume Piave, alimentato da numerosi affluenti che scendono dai monti circostanti. Al di là di centri come Feltre, Sedico, Trichiana o Belluno stessa, caratterizzati dai tipici processi di urbanizzazione degli ultimi decenni, questa porzione di territorio è punteggiata da centri minori, fattorie, case rurali e ville venete.  Nella zona circoscritta che prendiamo in considerazione in questo post, un colle collocato a nord-est di Feltre, i segni di un passato rurale sono tuttora ben visibili nella campagna delle frazioni Vellai e Cart e delle località loro circostanti. Uno degli elementi più suggestivi di questo paesaggio, facilmente idealizzabile nel ricordo dei “bei tempi andati” (e forse mai esistiti