«Longarone ha perduto sé stessa due volte. Nella tragedia e nella ricostruzione.»
Pier Luigi Cervellati commentava con queste parole i risultati di un quindicennio di cantieri [1]. Ma come mai lo studioso – docente di architettura e urbanistica all’Università di Bologna e allo IUAV di Venezia – arrivava a una sentenza tanto forte? Addentrandoci nelle vicende della ricostruzione longaronese, possiamo renderci conto della fondatezza delle sue parole.
Per iniziare, facciamo qualche passo indietro. Dopo il disastro del Vajont, Longarone è obliterata: sulla propria traiettoria l’onda non ha risparmiato nulla. Si fa presto ad elencare precisamente le esigue parti superstiti: l’ultima parte di Via Roma con il municipio, il Borgo dei Murazzi che sale di quota e l’abitato di Roggia. Nel resto di quello che era stato il paese, l’apporto di detriti ha coperto anche le fondamenta dei palazzi distrutti, tanto da far sembrare Longarone una brulla piana dove non è mai esistito nulla. Il 90% del patrimonio edilizio è completamente distrutto.
Tuttavia, l’eco dell’accadimento è di portata mondiale e ciò fa sì che la macchina dei soccorsi si muova poderosamente. Non tratteremo in questa sede l’esodo dei sopravvissuti, al quale è stato dedicato tanto spazio in molta letteratura, ma della puntualità nella programmazione di una ricostruzione, che avviene a distanza di due mesi dalla tragedia. Il governo dà l’incarico di realizzare un piano preliminare nientemeno che a Giuseppe Samonà (1898 – 1983), tra i più importanti architetti del Novecento italiano, allora direttore dell’Università IUAV di Venezia.
Samonà mette insieme un gruppo di capaci personalità, tutte più o meno legate all’accademia veneziana. Un gruppo foriero di un principio architettonico innovativo, che guardava soprattutto alla produzione del noto Le Corbusier, concentrandosi sugli aspetti delle forme e dei materiali inediti, e sulla funzione collettiva del vivere. Tutto il terreno a disposizione viene suddiviso per zone: una residenziale nella parte più alta, una industriale in quella più bassa, a poca distanza dalle acque della Piave, e una intermedia dedicata ai servizi e ai commerci. L’obiettivo era rendere Longarone centro di importanza comprensoriale, un rinnovato punto di riferimento e interesse per le vallate circostanti: la Valcellina, lo Zoldano e il Cadore meridionale, da Perarolo a Termine. Si trattava d’altronde della prima volta dalla ricostruzione postbellica che architetti e urbanisti avevano totale campo libero nella progettazione ex novo di un centro urbano.
Si era tuttavia formato, nel frattempo, il Comitato Superstiti, che aveva avuto modo di mettere le mani su quello che ormai si andava chiamando – nei primi mesi del 1964 – “Piano Samonà”. Il comitato era costituito da longaronesi sopravvissuti al disastro, che desideravano vedere il loro paese ricostruito simile a comelo ricordavano. E ciò è comprensibile: dopo una tragedia di tale portata – dove intere famiglie vengono spazzate via – la scomparsa del luogo natio rappresenta un’ulteriore perdita dei propri orizzonti. Il Comitato ha il proprio portavoce nell’ingegnere bellunese Arrigo Galli. Samonà aveva proposto dei grandi blocchi edilizi, che riprendessero nell’estetica i Murazzi, grandi terrazzamenti settecenteschi resistiti alla calamità, che ancor oggi dominano il panorama al di sopra dell’abitato. Il Comitato non voleva assolutamente saperne e desiderava «case unifamiliari di tipo alpino» [2], invocando l’intervento dell’architetto cortinese Edoardo Gellner.
Si badi bene: nonostante sia stato più volte pronunciato il motto «Com’era e dov’era» – facendo riferimento all’episodio di ricostruzione del Campanile di San Marco nel primo decennio del secolo – non si penserà mai a ricostruire Longarone nelle sue forme originarie. I paesani chiedevano essenzialmente due cose: la presenza di tetti a falde e variabilità nella cortina edilizia, con case di dimensioni minute ed elementi di legno. Ciò farà esclamare a Samonà: «Ma cosa vogliono i longaronesi, le casette a cucù?» [3]. Effettivamente, tale espressione non era campata per aria: Longarone non ha mai avuto l’aspetto di abitato prettamente alpino, manifestandosi con piane facciate di sasso senza aggetti rilevanti, nelle quali l’unico elemento ligneo presente erano le imposte.
Un punto di svolta si ha nell’autunno 1964: viene eletto sindaco Giampietro Protti, egli stesso un superstite. Dal momento che non si riesce a trovare una mediazione tra il gruppo di Samonà e il Comitato, il nuovo sindaco nomina come coordinatori del progetto i friulani Gianni Avon (1922 – 2006) e Francesco Tentori (1931), a cui viene assegnato il ruolo di comprendere i desideri dei residenti e di unirli all’innovativo progetto firmato dal gruppo IUAV. Lo stesso Samonà comprenderà la necessità di non progettare ciecamente, a tavolino, ma di ascoltare pure i desideri dei fruitori. A metà anni Settanta, infatti, scriverà:
«Invece di considerare l’urbanistica come disciplina chiusa e autonoma, dobbiamo pensarla come espressione di una lunga partecipazione popolare […]. Sarebbe allora un momento di osservazione del territorio in cui è impegnata la vita sociale della comunità.» [4]
Ma quindi, cosa viene materialmente realizzato? Gli architetti del gruppo di Samonà riescono a far costruire le prime commesse che gli erano state affidate, essenzialmente edifici a scopo non abitativo. Viola questo principio Valeriano Pastor (1927), che tra il 1964 e il 1968 fa realizzare la stecca edilizia che si trova alla sommità di Via Manzoni. Si basa sull’Unité d’Habitation di Le Corbusier e consiste in una serie di unità abitative connesse ai primi due piani mediante una galleria comunitaria. Termina il complesso un edificio a torre, chiamato la “Casa Alta”, che avrebbe dovuto contenere una piazzetta interna, alla fine non terminata. Il tutto è realizzato con cemento armato lasciato a vista, senza falde di alcun genere. Tale struttura fu talmente invisa ai longaronesi da essere soprannominata “il bunker”. Nella realtà dei fatti, è ciò che più si avvicina al piano originale di Samonà.
Per il resto, è importante l’attività di Costantino Dardi, che progetta le scuole elementari come una serie di elementi cubici uniti tra loro mediante brevi setti murari. Giovanni Michelucci, invece, vede completamente realizzato il proprio modello per la nuova chiesa di Santa Maria Immacolata, portata a termine tra il 1975 e il 1982. Non imita le fondamenta dell’edificio distrutto sul quale è costruita, ma si configura come elemento architettonico autonomo, a forma di tronco di cono o corona; l’interno è pensato per avvolgere completamente il fedele.
Edoardo Gellner, invece, torna in gioco con una serie di commissioni private: oltre a residenze vere e proprie, progetta il nuovo abitato di Rivalta e l’Albergo-scuola ENALC, l’attuale IPSSAR Dolomieu. Non si esaurisce qui il computo delle architetture in mano a eccellenti personalità del tempo, ma si nota come siano punteggiate qui e lì sul territorio, non andando a formare un insieme coerente. E, in effetti, Via Roma (la principale arteria viaria dell’abitato) è risolta in maniera anonima, con edifici che, sì, vanno incontro ai desideri dei residenti, ma che al contempo sono assolutamente anonimi e, oltre a ciò, fanno a pugni con quelli realizzati dal resto degli architetti.
In questo modo, nessuno è stato accontentato appieno e la contraddizione dei risultati estetici è evidente. Uno spunto di discussione: cosa si sarebbe potuto fare per imboccare una strada differente? Secondo l’opinione di chi scrive, due sarebbero state le alternative:
Realizzare appieno il Piano Samonà. Certo, ci sarebbe stato un forte contrasto da parte della popolazione. Popolazione in una situazione psicologica più che evidentemente delicata. D’altro canto, però, ci troveremmo oggi di fronte a un centro urbano completamente modernista, unicum non solo in provincia e in Veneto, ma in tutta Italia.
Ricostruire tale e quale il centro storico di Longarone. Di documentazione archivistica e fotografica ce n’era a sufficienza: si sarebbero potute riedificare le varie strutture lasciandole inalterate all’esterno, ma apportando i giusti cambiamenti all’interno, per adeguarle al vivere contemporaneo. Oltre a questo, si sarebbe potuto sviluppare un piano regolatore adeguato allo sviluppo futuro del paese.
Il risultato finale appare come la più banale e anonima periferia di qualunque centro italiano, molto lontano da chi voleva dare a Longarone un sapore cittadino, di grande centro comprensoriale.
[ilCervo]
NOTE
[1] Cervellati, Pier Luigi, Identità Perduta, in Il Vajont dopo il Vajont. 1963–2000, a cura di Maurizio Reberschak e Ivo Mattozzi, Marsilio, Venezia, 2009, pp. 167-184, p. 181.
[2] Pastor, Barbara, Valeriano Pastor: progettare e costruire dopo la catastrofe, in Ricostruire Longarone. I piani e le architetture 1963–1972, a cura di Guido Zucconi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2023, pp. 117-131, p. 123.
[3] Reberschak, Maurizio e Mattozzi, Ivo (a cura di) Il Vajont dopo il Vajont. 1963–2000, Marsilio, Venezia, 2009, p. 185, didascalia fig. 17.
[4] Zucconi, Guido, 1963-1966: le premesse a un modello mancato, in Ricostruire Longarone. I piani e le architetture 1963–1972, a cura di Guido Zucconi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2023, pp. 13-23, p. 21.
BIBLIOGRAFIA
Reberschak, Maurizio e Mattozzi, Ivo (a cura di), Il Vajont dopo il Vajont. 1963-2000, Marsilio, Venezia, 2009
Zucconi, Guido (a cura di), Ricostruire Longarone. I piani e le architetture 1963 – 1972, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2023.
Commenti
Posta un commento