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Post 121 - Tradizioni mortuarie ampezzane

 

Ogni cultura ha sviluppato usanze e rituali per accompagnare i propri defunti nel regno oltremondano, e le nostre comunità di montagna non sfuggono certo a questa regola. In Ampezzo la dipartita di una persona era nella maggior parte dei casi annunciata con un certo anticipo: il segno più tangibile era il passaggio del sacerdote che portava il viatico al morituro, ma anche il gracchiare del corvo sul tetto di una casa era considerato presagio che la famiglia che la abitava avrebbe presto patito un lutto. Quando la morte infine sopraggiungeva, si attivava un complesso e rigoroso rituale, affidato, più che ai parenti del defunto, alla “prima vejinanza”, ossia i vicini più stretti dell'estinto.

Il cadavere veniva innanzitutto predisposto per la camera ardente, che era di regola la stua (cioè il salotto) della casa; se si trattava di un uomo o di una donna sposata il vestito era nero, bianco invece per quelle nubili; spesso il cadavere veniva lasciato scalzo, i piedi coperti solo da calzini bianchi, anticamente colore associato al lutto. Il corpo veniva posto su un catafalco detto “sbara”, e la camera ardente era completata da candele, accese solo per la recita dei servizi funebri, da un lumino, che doveva ardere per tutta la permanenza del defunto in casa, e dalla pila dell’acqua santa, con la quale i visitatori benedivano il morto avvalendosi di un ramoscello di abete. Il rituale variava notevolmente in occasione della morte dei bambini: in tal caso la sbara era detta paradis, ed era completamente ornata di bianco; mancava inoltre il secchiello con l’acqua benedetta: essendo morti senza peccato, non avevano bisogno di lavare le loro colpe.



Per due giorni il morto restava in casa, periodo durante il quale veniva continuamente vegliato da parenti e vicini, che recitavano i servizi funebri ad intervalli regolari. Ad ogni partecipante veniva distribuito un piccolo obolo, come ringraziamento per la preghiere in suffragio del defunto: anticamente esso era costituito da un pugno di sale o di fave, ma poi si evolvette nel “pan da morto”, ossia un grande pane bianco, rotondo, con semi di cumino; più recentemente esso venne sostituito da una moneta. I più benestanti, inoltre, distribuivano ai poveri del paese del sale, o un pane detto “pan da mesa”. In caso di morte di bambini anche la veglia mutava sensibilmente; essa durava solo una notte, e venivano eseguiti musiche e balli: era diffusa la convinzione consolatrice che il piccolo, divenuto un angelo del paradiso, avrebbe preparato un posto per la madre, che avrebbe così “ciapà tenda”.



In seguito alla veglia il defunto veniva posto nella bara e portato dal suo villaggio fino a Cortina, dove lo attendevano sacerdoti e ministranti; dopo i servizi funebri, che fino agli anni ’20 avevano luogo alle 7 di mattina, esso veniva condotto in cimitero. La bara era di regola sorretta da quattro o sei persone: uomini sposati se il defunto era una persona sposata, uomini celibi se uomo celibe, donne col fazzoletto bianco nel caso di donna nubile, e coetanei dello stesso sesso se era un giovane; il trasporto dei personaggi particolarmente ragguardevoli veniva effettuato con un carro funebre. Una tradizione curiosa è che per presenziare al funerale bisognava esservi stati invitati: la prima vejinanza si occupava di stilare la lista. Inoltre ad ogni partecipante veniva consegnata una candela, e, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, una “memoria”, ossia dei santini che ricordavano il defunto. Sottofondo del rituale funebre era la campana detta “de r’angonia”, che suonava solo in queste occasioni; i lugubri rintocchi - i bote - erano commisurati in base all’età e al sesso del dipartito.



La sepoltura non concludeva i riti ferali: i rosari e gli uffici funebri continuavano ad essere recitati a casa del morto per diverse notti, anche se in forma abbreviata, e ad essi seguiva sempre la distribuzione del pan da morto e degli altri oboli. Otto giorni dopo la morte veniva celebrato l’ottavario, ed entro il trigesimo della scomparsa i congiunti del defunto provvedevano ad un’ulteriore distribuzione di pane: in questo caso si trattava di oce de bo, petes e petuche, che venivano consegnati alle famiglie in base al legame di parentela e vicinanza ed al numero di componenti. Oltre a ciò, naturalmente, i congiunti del defunto erano tenuti a portare il lutto, per un periodo che variava a seconda del legame col dipartito; forse sorprendentemente, e come già anticipato, nei tempi più antichi esso era rappresentato dal colore bianco: la vedova doveva infatti coprire il ciou, la tipica acconciatura ampezzana, con un’apposita cuffietta bianca. In seguito questo colore venne soppiantato dal più comune nero. Il funerale non metteva fine neppure alle vicende del defunto: era credenza diffusa che le anime si tramutassero in rospi, vermi, rane e farfalle per purgare i peccati commessi, o che vagassero lamentandosi sotto la Croda da Lago o sopra Cianderou, presso i Buje de ra Zestes. 



Col tempo alcune tradizoni mortuarie ampezzane sono sparite, altre si sono evolute: ancora vivo e molto sentiti è l’istituto della prima vejinanza, che oggi si occupa di organizzare il funerale e gestire gli aspetti burocratici della dipartita, e scorta il defunto portando la croce nel corteo funebre. La camera ardente difficilmente viene allestita nella casa dell'estinto, ed il rosario si recita solo per una notte nella chiesa parrocchiale o in quelle del villaggi. La distribuzione di oboli è stata sostituita, nella maggior parte dei casi, da un rinfresco in memoria del defunto subito dopo il funerale; ancora diffusa è invece la distribuzione delle memories. Immutata è anche la tradizione della campana de r’angonia, memento mori inconfondibile e noto a tutti gli ampezzani.


Bibliografia

Amelia Menardi Illing, I giorni, la vita in Ampezzo nei tempi andati, Cortina d'Ampezzo, Nuove edizioni Dolomiti, 1990

Amelia Menardi Illing, Il costume in Ampezzo, Cortina d'Ampezzo, Edizioni La Cooperativa di Cortina, 1995,

Gaetano Perusini, Usi e costumi popolari ampezzani, da Lares, volume 14, numero 2, Verona, Casa editrice Leo S. Olschki, 1943


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