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Post 117 - La filigrana d’argento in Ampezzo

 

Per “filigrana” si intende, in oreficeria, la tecnica di lavorazione ad intreccio di sottili fili d'oro o d'argento – come nel nostro caso - i quali, dopo la ritorcitura, vengono fissati su un supporto, anch'esso di materiale prezioso, in modo da creare un elegante effetto di struttura traforata. Conosciuta dall’uomo sin dall’Antichità, raggiunse una delle sue massime espressioni tra XIX e XX secolo, in una conca ampezzana che appena si affacciava sull’età del turismo.



Le origini della filigrana in Ampezzo sono antiche, tanto da essere avvolte nel mito: secondo quanto riportato da Karl Felix Wolff, l’arte sarebbe stata insegnata da una strega, la Svalaza, ad una giovane salvana caduta nei suoi inganni, Filadesa. La ragazza sarebbe stata costretta ad assumere la forma di un’aquila e rapire i figli maschi dei valligiani, per poi rinchiuderli, trasformati in uccellini, in gabbiette, appunto, in filigrana. La giovane donna sarebbe stata liberata solo dall’amore del pastore Ghedin, e la coppia avrebbe poi trasmesso ai fabbri ampezzani l’arte del filo d’argento.



Al di là della leggenda, la storia della filigrana inizia ad essere documentata nell’Età moderna: risale infatti al 1714 la prima carta dotale dove viene menzionato un «ago – ossia uno spillone per capelli - di filigrana». All’epoca gli oggetti in questione erano probabilmente ancora rudimentali, ben lontani dalla fine perfezione che ancora oggi desta tanto stupore, e costituivano elementi degli abiti tradizionali femminili. Il primo salto di qualità si ebbe nel 1846, con l’apertura di una Scuola di disegno in Ampezzo. Da essa, divenuta poi Imperial-regia scuola industriale, nacque la Scuola filigrana Cortina, fucina dei grandi maestri che fecero giungere la tecnica artistica al suo apice.

 


Il procedimento creativo era affidato completamente all’artigiano: egli partiva dalla creazione del filo d’argento, giacché in commercio era impossibile trovarne di sufficientemente fini. Questo era il primo passo di quel lungo procedimento che avrebbe portato all’oggetto finale; un lavoro impegnativo e delicato, per il quale erano necessari strumenti e macchinari specifici, semplici ma ingegnosi, e soprattutto grande abilità, pazienza e delicatezza. A modello venivano presi talvolta elementi architettonici, spesso fantasiosamente gotici, ma nella maggior parte dei casi soggetti naturali, e soprattutto fiori: gli artigiani miravano a riprodurli nel modo più perfetto possibile, giungendo fino a smembrarli per comprenderne appieno e riprodurne la struttura.  



Tra XIX e XX secolo le botteghe filigraniste videro la loro massima espansione: quotidianamente venivano creati e venduti a turisti e valligiani gioielli, cornici, soprammobili in filigrana; gli artigiani e le loro opere riscuotevano enormi successi alle mostre internazionali di mezza Europa. Nonostante questo
boom, tuttavia, la Prima guerra mondiale segnò l’inizio del declino del settore: dopo l’iniziale curiosità, la domanda andò scemando, mentre i costi per i preziosi materiali e la manodopera specializzata crescevano, a causa delle difficili condizioni economiche del dopoguerra. Molte botteghe si videro costrette a chiudere, altre affiancarono a quella abituale altre attività.



La parabola della filigrana ampezzana avrebbe potuto concludersi così, ma per fortuna non era questo il suo destino: alcuni degli artigiani, tenacemente, continuarono a praticare e trasmettere la loro arte fra le mura domestiche, e di generazione in generazione essa è giunta fino a noi. In parte uscita di scena come soprammobile o souvenir, ha continuato tuttavia a mantenere la sua funzione originale: arricchire gli abiti tradizionali ampezzani. In tante case si conservano come tesori “tremui”, “bujeles”, “zoletes” - alcuni dei gioielli del costume ampezzano - che splendono nella loro finezza fra i capelli delle donne e le sete  degli abiti nei giorni di festa.



Bibliografia

M. Arnoldo, Da un filo d’argento, Cortina d'Ampezzo, Edizioni ULdA, 2003.

K. F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli editore, 1982.


Crediti fotografici

Diego Gaspari Bandion


[pgbandion]

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