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Post 107 - Dal Piaz e il Bus de la Bèla

 

A sentire il nome del geologo feltrino Giorgio Dal Piaz si può pensare principalmente a due cose: la geologia e il Vajont. Ma durante i suoi anni universitari, sotto la guida del suo relatore, il geologo e paleontologo Giovanni Omboni, si cimenterà nel primo censimento delle grotte bellunesi, scrivendo un bellissimo (ed oggi introvabile) testo, intitolato “Le grotte e altri fenomeni carsici nel Bellunese”. Da questo testo verrà estratto il saggio dedicato alla Grotta della Bus de la Bèla (o Grotta di San Donato) e al ritrovamento del Calice del Diacono Orso, rinvenuto poco distante. In contemporanea a questo estratto, sul prestigioso Bollettino di Paleontologia Italiana [1], pubblicherà il resoconto dei rinvenimenti archeologici della grotta lamonese e della grotta di Casàn, in comune di Ponte nelle Alpi.


Il testo pubblicato nel BPI si intitola “Contribuzioni alla Paletnologia del Bellunese”, e si proponeva appunto di colmare la lacuna di informazione di due siti posti in zone piuttosto impervie e inaccessibili: quello di Casan, di cui scriveremo magari in uno dei prossimi post, e quello lamonese (il Bus de la Bèla), su cui aveva già parzialmente lavorato Jacopo Facen [2] a metà Ottocento, di cui ci occuperemo oggi.




Facen si era limitato a postulare un’antica frequentazione umana della grotta, non avendone rinvenuto durante le sue ricognizioni alcuna prova materiale. Questa assenza bastò infatti allo studioso primierotto Fortunato Fratini per confutare l’ipotesi di Jacopo Facen. Dal Piaz, invece, convinto della fondatezza delle idee di Facen, esplorò nuovamente la grotta nell'ultimo decennio del 1800, conducendo un'attenta (e avanguardistica) attività di indagine archeologica, scavando dei sondaggi in alcuni punti e documentando la stratigrafia, e rinvenendo finalmente dei reperti archeologici.


La Grotta di San Donato, tanto citata qui sopra ma poco descritta, si trova nella Valle di Senaiga, ai piedi del versante dove sorge l’abitato di San Donato di Lamon. La posizione è comunque sopraelevata rispetto al sottostante torrente Senaiga.

 

Oltrepassato l’imponente accesso della grotta, orientato a sud sud-est, si apre un breve corridoio su cui si affacciano delle piccole sale (spesso per accedervi bisogna strisciare). Il corridoio tende ad aprirsi in un ampio salone, in gran parte occupato da un enorme masso, risultato dal cedimento della volta superiore. A seguire si apre uno stretto e alto corridoio che conduce ad un altro salone dove è presente l’unica stalagmite di grandi dimensioni della grotta. Il totale dell'estensione della grotta è di 150 metri.



Approfittiamone per seguire passo passo l'esplorazione e la ricerca di Dal Piaz. Nell'ultimo salone della grotta, egli trova in superficie numerosi frammenti di carbone [3]: qui appronta quindi un primo sondaggio di due metri quadrati. Descrive quindi gli strati che individua, che sono due: il primo composto da un’argilla bianca di circa 90 cm di spessore [4], e un secondo sottostante più rossiccio, da cui emersero resti appartenenti all’Ursus spelaeus. Tra questi resti faunistici, Giorgio Dal Piaz nota un omero di 18 cm che pare lavorato in modo da ottenere una lama [5].


Dopo questo primo rinvenimento, prova di un'industria umana, Dal Piaz apre poco distante altri tre sondaggi delle medesime dimensioni (uno adiacente e altri due nei paraggi). Non trova però nient’altro. Decide di esplorare un altro anfratto della grande sala, che risulta sbarrato da un masso di crollo. E qui trova numerosi resti ossei di ruminanti e carboni in superficie, testimonianze di una frequentazione decisamente più recente. Decide allora di farsi calare nel cunicolo, dove riconosce nelle pareti dei fori artificiali, creati probabilmente per posizionarvi dei traversetti a sostegno di piani rialzati dal suolo. Non contento, decide di far brillare con l’ausilio di alcune mine il masso che ostruiva l’accesso.  Dopodiché prosegue con uno scavo stratigrafico, dove riconosce 5 strati. Vi riportiamo quanto ha scritto riguardo:


1° Stato superficiale di 20 cm circa, terriccio nerastro ricco di carboni e ossa spaccate.

2° Strato di terra argillosa senza alcun resto organico di spessore 60 cm circa.

3° Altro strato di terriccio rossastro dello spessore di 40 cm circa, nel quale rinvenni un cranio di marmotta, due mandibole e varie ossa della stessa specie tutte spaccate, alcuni carboni, due mandibole di capra, alcune ossa di volpe e varî pezzi di fittili non lavorati al tornio.

4° Di nuovo strato di argilla di 30 centimetri di spessore, alla base del quale rinvenni un altro pezzo di fittile.

5° Finalmente per 40 e più centimetri uno strato di sassi angolosi, sotto i quali ho raccolto un cranio d’Ursus spelaeus e null’altro più d’interessante.



Dal Piaz si sofferma ad osservare come alcuni resti faunistici (marmotta in particolare) siano interessanti. In realtà sono i frammenti fittili, cioè ceramici, la cosa più preziosa ad emergere. Egli stesso riporta che con essi si può ricostruire un unico recipiente, il cui impasto risulta nerastro, con inclusi di sabbia di calcare e quarzo. La fattura a mano, senza l’ausilio del tornio, è altresì dimostrata dall'irregolarità dello spessore dei frammenti ceramici. Purtroppo di questi ultimi non riesce a dare un'attribuzione, e senza alcuna immagine o disegno è difficile per noi, a posteriori, poterla identificare. Perché, ebbene sì, tutti questi reperti sono ad oggi scomparsi.


Dal Piaz riporta anche il rinvenimento in superficie di due frammenti ceramici, in una stanza laterale all’ingresso della grotta. I due frammenti fanno parte di due vasi diversi. Il primo di spessore di 5 mm, presenta un impasto a grana fina e non è lavorato al tornio. In parole semplici? Ci troviamo tra il Neolitico e l'età del Bronzo medio, quando il tornio non era ancora stato inventato. Il secondo frammento, di piccolissime dimensioni  (parliamo di pochi centimetri, “pochi ma buoni”, verrebbe da dire) presenta uno spessore che varia da 8 a 4 mm. Anch’esso risulta lavorato senza tornio, con la faccia interna rossa e l'esterna nera. Inoltre presenta delle decorazioni: una doppia fascia di linee parallele distanti tra loro 20 mm, con solchi trasversali. Nella parete interna invece sono presenti delle decorazioni ad onda. Dal Piaz ipotizza che siano stati realizzati con un pettine o con una conchiglia. Per tentare una datazione più specifica rimane la possibilità di confrontare questi reperti con altri simili, rinvenuti altrove. Per dare la sua attribuzione, (Dal Piaz propende per il Neolitico), lo studioso si rifà in particolare ad una pubblicazione sul sito delle palafitte di Lubiana i cui reperti presentano una discreta somiglianza con i nostri. Grazie al progresso delle conoscenze, ad oggi sappiamo invece che i reperti di Lubiana sono datati all’Età del bronzo, e più precisamente al 2000 a.C. circa.



A che scopo questo ambiente sotterraneo era frequentato dagli uomini del tempo? Dal Piaz conclude ammettendo che non è chiaro l’uso della grotta di San Donato durante la preistoria: ma la sua ricerca ha dimostrato che la presenza umana doveva essere certa. Come avete capito, a noi rimangono soltanto le sue relazioni scritte: dei reperti rinvenuti neanche l’ombra. Non abbiamo quindi scelta, se non quella di affidarci al suo racconto.


Note

[1] Per semplicità lo riporteremo come BPI.

[2] Vedi il post 7.

[3] Non possiamo conoscere la datazione di questi primi elementi. Per quanto ne sappiamo potrebbero essere i resti del passaggio di persone in tempi recenti: la grotta è sempre stata frequentata dalle persone del posto e da molti studiosi.

[4] Probabilmente si tratta di “latte di monte”, un deposito di calcare che si forma in ambienti ipogei.

[5] Una zagaglia. Trova confronti con altri contesti dalla Liguria con Ursus spelaeus riportati da Dal Piaz: Caverna delle Fate, Grotta della Bàsura, Grotta dell’Onda.


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