Dopo quasi due anni di attività della pagina, è giunto il momento di trattare un territorio ingiustamente ignorato dalle nostre disquisizioni: mi riferisco alla Val di Zoldo. La valle è particolarmente isolata rispetto alle sue omologhe contermini, caratteristica che le ha fatto maturare una specificità culturale. A Zoldo, il dialetto assomiglia a quello agordino, ma ha qualcosa di assolutamente unico che lo fa distinguere immediatamente. Parimenti, l’architettura montana che ha qui trovato espressione nelle dimore rustiche, ricorda di certo quella cadorina o agordina, ma se la si guarda più con più attenzione si noteranno dei dettagli squisitamente locali. Per non parlare dei tabià, massima espressione dell’estro creativo della zona.
Se si volesse riassumere la bassa valle in un unico luogo, questo sarebbe Fornesighe. Si tratta di un paese collocato in un’area inedita della vallata, dove sorge lui e lui solo, abbarbicato a mezza costa sulle pendici del Col Duro, all’imbocco del Passo Cibiana. Dall’agglomerato abitativo che costituisce l’insieme quasi caotico di frazioni della bassa zoldana, Fornesighe si staglia come apparizione estatica, col bruno e il bianco delle sue case che contrastano il verde degli abeti circostanti. Ebbene, è giusto interrompere questa visione idilliaca per riportare il post nei giusti binari archeobellunesi.
Innanzitutto, partiamo dal titolo: perché “borgo non borgo”? Tutto ciò che è stato descritto fin qui potrebbe far materializzare nella mente delle persone l’idea che la definizione di “borgo” calzi a pennello con Fornesighe. In realtà, non potrebbe esserci nulla di più errato: come dice anche la Treccani, un borgo è un centro fortificato, o al massimo la sua espansione abitativa sorta all’infuori delle mura. Che sia il primo o il secondo caso, c’entrano sempre strutture difensive, di cui qui non c’è sicuramente traccia. Le uniche mura che vide la Val di Zoldo furono erette nel Seicento dagli abitanti di Soffranco, i quali – temendo erroneamente che la peste provenisse dalla valle – pensarono bene di metterne in quarantena forzata gli abitanti isolandoli all’interno (spoiler: il morbo ovviamente arrivò da sud e contagiò comunque i soffranchesi). Il nostro consiglio, quindi, è quello di stare attenti, non facendosi ingannare dai vari réclame che utilizzano questa parola per moda e pubblicizzano borghi che non sono realmente tali.
Proseguiamo con la spiegazione della forte affermazione fatta sopra: perché la bassa zoldana potrebbe essere riassunta in questo luogo? Beh, perché passeggiando tra i vicoli e i sentieri di Fornesighe, si ha un buon compendio di come dovessero apparire i paesi di questa vallata più di un secolo fa. La tradizione locale vuole che il villaggio sia stato risparmiato dagli incendi; vero o meno che sia, tocca ammettere che la conservazione delle dimore storiche è davvero ottima. Da distante, si riescono a comprendere al meglio i tre agglomerati abitativi che costituivano il nucleo originario di Fornesighe. Si riescono a distinguere perché le facciate degli edifici che li compongono sono totalmente in legno, miracolosamente conservatesi. Lo spazio tra le tre località originarie fu tamponato soprattutto durante l’Ottocento, con modelli edilizi derivati dal Rifabbrico (vedere a tal proposito il post 30) che si notano per i candidi prospetti intonacati. La fusione tra questi due modelli principali crea un insieme davvero armonico, anche se sono le più antiche case lignee ad attirare completamente la nostra attenzione. L’architetto Edoardo Gellner le considerò di tipo “plurifamiliare cadorino-zoldano”, in quanto modalità abitative analoghe si possono riscontrare anche nel territorio confinante. È comunque una semplificazione, perché l’aspetto di queste dimore varia davvero molto da zona a zona. Neppure la Val di Zoldo nella sua interezza è edificata tutta nella stessa maniera. Le case della parte alta (ex comune di Zoldo Alto a eccezione della Val di Goima) si caratterizzano storicamente per una dimensione maggiore e per un minor impiego di parti lignee. Quelle della bassa valle (ex comune di Forno di Zoldo) sono invece leggermente più contenute e fanno un uso massiccio di legno. La suddivisione interna dei locali – che non staremo qui a trattare – è poi molto differente. L’origine di tali diversità va ricercata nella specializzazione economica delle due aree, l’attività pascoliva per il primo caso, quella estrattivo-mineraria per il secondo. Le case di Fornesighe appaiono oggi come puro prodotto di architettura spontanea, in cui le aggiunte erano edificate a seconda del bisogno. Ciò è particolarmente evidente in Casa Costantìn Birot Noè, come si può vedere dalle immagini. Anche a causa di ciò è impossibile stabilire una data univoca di costruzione, poiché questi manufatti erano in cambiamento costante fino a non molto tempo fa.
Altro elemento degno di nota da segnalare, è la presenza in paese di tipologie costruttive peculiari dell’area germanofona, come il blockbau (incastellatura lignea a incastro) e il graticcio (intelaiatura portante di legno con tamponamento di pietrame).
Anche la chiesa è esemplificativa, dato che il punto in cui fu eretta simboleggia l’unione dei vari rapporti che lo Zoldano intratteneva con le aree vicine. Essa fu edificata nel luogo più elevato dell’abitato, precisamente in un incrocio di percorsi. A sudovest si accede al paese e alla vallata in generale, a est al Passo Cibiana, mentre a nordovest inizia il sentiero che un tempo arrivava prima a Zoppè di Cadore e portava poi alla Val Boite, attraverso Forcella Ciandolada. L’edificio, dedicato a San Vito, attrae volutamente lo sguardo grazie al suo campanile a cuspide, che si impone come fuoco visivo dalla vallata sottostante.
Di Fornesighe sarebbe di sicuro interesse anche la Gnaga, il carnevale locale. Tuttavia, dato l’argomento di carattere antropologico, ci sembra il caso di rimandare questo discorso a un prossimo post.
[ilCervo]
Bibliografia e sitografia
Agostini, Mario, Lazzarin, Paolo, Zoldo. Notizie e curiosità paese per paese, Verona, Cierre Edizioni, 2000
Gellner, Edoardo, Architettura rurale nelle Dolomiti venete, Cortina d’Ampezzo, Dolomiti Edizioni, 2009 (1988)
Ianniello, Cristina, Carnevali e riti di fine anno, in La cultura popolare nel Bellunese, Verona, Cariverona Banca Spa, 1995, pp. 242-265
Poppi, Cesare, Carnevale nelle Dolomiti, in Gente dei Monti Pallidi, Falcade, Nuovi Sentieri Editore, 2021, pp. 371-376
Vizzuti, Flavio, Tesori d’arte nelle chiese del Bellunese. Val di Zoldo, Belluno, Provincia di Belluno Editore, 2005
Arcanum, in https://maps.arcanum.com/en/
Enciclopedia Treccani, in https://www.treccani.it/
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