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Post 101-102 – Strade, mercanti e valichi alpini nel Medioevo

 

Gli equilibri territoriali della regione dolomitica sono sempre stati molto delicati e molto complessi. Per capire la storia del nostro territorio è necessario riconoscere i fattori geografici che da sempre hanno agito nel determinarla. Bisogna, per esempio, riuscire a cogliere le dinamiche economiche e di potere che interessavano le vie di comunicazione.

Ma è evidente che le “vie di comunicazione” devono necessariamente mettere in comunicazione qualcosa con qualcos’altro: tanto più grandi, ricchi, potenti, popolosi sono i centri a cui queste vie permettono i collegamenti, e tanto più esse stesse diventano oggetto di interesse, di contesa, di scambi commerciali; tanto più quindi diventa interessante per noi studiarle, individuarne il tracciato e l’importanza, addentrarci nelle piccole pieghe della storia per scoprire chi si muoveva lungo questi percorsi, come, con che destinazione.



In questo articolo vi parleremo di una strada ricchissima di storia che, attraversando le Dolomiti, ha permesso di collegare per secoli e secoli il Tirolo al Veneto nord-orientale, e Venezia alla Germania. Ripercorreremo idealmente quella che noi conosciamo come “Strada d’Alemagna”, più nota nel Medioevo come “Strada Regia”, cercando di raccontare cosa significasse all’epoca spostarsi e trasportare merci in questa regione, e tentando di dare almeno una prospettiva di scorcio sul ruolo che questa terra di confine ha giocato nel confronto tra le potenze che si affacciavano sull’area alpina.

Il nostro viaggio parte ai piedi del Castello di Céneda, che domina il paesaggio dove la pianura si restringe, e le pendici ripide delle Prealpi lasciano sempre meno spazio ai vasti campi e ai vigneti da cui proviene tutta la ricchezza della zona. Ai viaggiatori provenienti da sud si presenta l’imbocco della val Lapisina, chiuso dalle imponenti fortificazioni di Serravalle. Sulla Strada Regia si sovrappongono secoli e secoli di orme di viaggiatori di tante epoche differenti. Giunti a questo punto, tutti loro si sono lasciati alle spalle le colline di Conegliano, in età medievale talmente fitte di olivi che la città «sembra stare in una foresta»[1], come ci testimonia uno di essi: si tratta di un frate tedesco, di nome Felix Schmidt, di ritorno nel 1484 dal suo secondo pellegrinaggio in Terrasanta, e qui giunto dopo essere sbarcato a Venezia. Molti altri come lui si incamminano per la Strada Regia dopo aver già percorso molte miglia, che rappresenta uno dei percorsi più rapidi per raggiungere i territori imperiali (molto più veloce della Valle dell’Adige, ad esempio).



Frate Felix raggiunge Serravalle in pieno inverno, nel mese di gennaio (avremo ancora occasione di ascoltare le sue parole lungo il percorso) ma anche in quella stagione la carreggiata è tutt’altro che deserta: la ingombrano viaggiatori di ogni sorte e provenienza, cavalli, muli, bestiame e soprattutto carri. I primi si muovono indistintamente in entrambe le direzioni, ma i carri, carichi di merce, sono quasi tutti diretti verso nord, verso il Bellunese. Si tratta di piccoli carri, non più larghi di un metro e mezzo, trainati da buoi, in grado di trasportare pochi quintali di merce. Perché? Il motivo si spiega proseguendo di qualche miglio, quando nella stretta val Lapisina (ci siamo ormai lasciati alle spalle la città e i suoi dazi) la strada si fa sempre più angusta e il manto stradale sempre più sconnesso: sarebbe impossibile transitare con mezzi più pesanti. La torre di San Floriano segnala che il confine è ormai vicino, e con esso il punto più pericoloso del tracciato, dove bisogna costeggiare il Lago Morto. Racconta il nostro frate: «Questo lago, di cui diciamo, ha acque scure; sopra la sua sponda salimmo per una strada molto cattiva, sconnessa dal ghiaccio, dalla neve e dai sassi e arrivammo poi in un luogo dove la via Regia era stata spazzata via completamente dalle masse di neve e di ghiacci»[2]. 

Non che nella bella stagione la via fosse tanto più agevole: anche senza la neve e il ghiaccio la strada versava in condizioni paurose, e furono tanti i carichi che nei secoli, sbilanciandosi un poco nei punti più angusti e dirupati, precipitarono nelle acque del lago, trascinando con sé talvolta anche i carri e gli animali aggiogati. Poco oltre un altro tratto arduo permetteva di scavallare il Fadalto e fare ingresso nel territorio di Cividàl di Belluno. Si poteva avere la certezza di aver passato il confine quando, dopo un breve tratto lungo il lago di Santa Croce, sorgeva a controllo della strada la fortezza bellunese di Casamatta, presidiata da un capitano e alcuni soldati.

Dalla conca d’Alpago la strada conduceva in Valbelluna, a Capo di Ponte (l’attuale Ponte nelle Alpi). Lì, come si intuisce dal nome, era possibile attraversare il Piave, e lì si trovava la dogana di proprietà di Belluno, dove le merci dovevano pagare dazio. Ma quali beni transitavano per questo crocicchio? Il nostro ipotetico viaggiatore che avesse percorso la via d’Alemagna giungendo da sud avrebbe dovuto più volte superare lungo il tragitto carovane di carri e muli carichi di vino. 

Non solo botti di vino tuttavia giungevano alla Muda Grande, anche una quantità di sacchi colmi di biave. Frumento sì, ma soprattutto grani minori, di cui si nutriva la maggior parte della popolazione: miglio, segale, fave. A questi prodotti si aggiungevano olio, sale, e numerosi altri beni in quantità minore. La stragrande maggioranza di ciò che i mercanti importavano nei territori di Belluno e del Cadore erano vettovaglie: la bilancia commerciale dei nostri territori vedeva un grande deficit interno di produzione alimentare, che poteva coprire il fabbisogno di queste aree fredde e montane per pochi mesi all’anno (ne abbiamo parlato nel Post 59). Per questo motivo, a Capo di Ponte, tra le merci citate, le biave erano esenti da dazio.

Per quanto riguarda il vino, invece, il consumo del distretto di Belluno e del Cadore non riesce a spiegare la quantità che tutti gli anni veniva trasportata dalla Marca Trevigiana verso nord. Vi abbiamo raccontato nel Post 93 che per una città come Conegliano, enorme produttrice vitivinicola, la rotta verso il Bellunese assorbiva quasi la metà del mercato. Queste migliaia di botti entravano sì nel nostro territorio, ma in gran parte per proseguire oltre, verso i mercati tedeschi. Ce lo conferma anche frate Felix Schmidt, che racconta: «…incontrammo molti ostacoli sulla via per quella regione (il Cadore) perché la strada pubblica e comune era piena di carri e veicoli e cavalli da soma, che trasportavano il vino italico e del Friuli in Alemagna»[3]. Questo flusso in entrata si incrociava a Capo di Ponte con un flusso in esportazione di quelle produzioni che riuscivano a garantire un surplus: panni (soprattutto di lana), pelle o corami, altri manufatti (in legno, metallo, pietra) di cui sappiamo però molto poco. E forse la più importante: il bestiame.

Superato il ponte sul Piave, Frate Felix e tanti altri viaggiatori e mercanti con lui, si trovavano a dover proseguire lungo la Strada Regia verso il Cadore, attraversando quindi quella che allora era la Pieve di Lavazzo (l’attuale Longaronese). Procedendo lungo il corso del fiume avrebbero incontrato un’altra dogana, al momento di attraversare il ponte sul Maè. Qui ciascuno di loro ha avuto occasione di vedere i muli carichi di piastre di ferro scendere da Zoldo, dove i forni lavoravano il minerale grezzo per ricavarne il metallo, vera ricchezza del Territorio alto del distretto. Tale produzione, assieme a quella di altre zone delle Dolomiti, era destinata sia alle fucine del territorio, dove venivano prodotti armi e attrezzi da lavoro, sia ad essere imbarcata su zattere per proseguire oltre i confini, rivolta all’ingente richiesta di materie prime proveniente dalle grandi città venete. Seguendo lo stretto tracciato della strada si sarebbe quindi profilata ai loro occhi a un certo punto la sagoma della Gardona, ultimo presidio bellunese prima del territorio cadorino.

Le condizioni della strada non miglioravano di certo una volta superata questa fortezza (di cui abbiamo parlato al Post 19)

È il momento però di chiedersi perché un’arteria commerciale così importante, che sola o quasi garantiva il vitale arrivo nel Bellunese dei rifornimenti alimentari da zone più fertili e ricche, fosse ridotta in questo stato di percorribilità, al punto da mettere a rischio la vita di chi ci transitava.

Una prima risposta potrebbe essere: beh, le altre strade erano ridotte ancora peggio (ne abbiamo parlato nel Post 88). Pensate ad esempio che era impossibile entrare in Agordino con un carro da qualsiasi direzione, perché nessuna delle strade, neanche quella principale che da Sedico risaliva il Cordevole, erano abbastanza larghe e adatte. Una seconda risposta è che effettivamente non si tratta di una zona geografica chissacché agevole per la costruzione di strade: pensiamo alle opere che oggigiorno permettono alle strade di montagna di essere sicure (disgaggi, barriere anti-slavina, …) e che allora non erano disponibili.

Un’altra motivazione però riguarda i sistemi con cui all’epoca, e anche durante l’Età moderna, le città e gli stati si occupavano del mantenimento delle infrastrutture. Questa è forse la motivazione più interessante, perché ci porta nel vivo della storia, della società e dei modi di vita dell’epoca.

In tutto il Bellunese la manutenzione delle strade era uno degli obblighi demandati alle comunità rurali: si trattava insomma di una delle famose corvée (di cui tutti ci ricordiamo dai libri di scuola) che i contadini dovevano svolgere. In queste difficili condizioni, erano gli abitanti dei villaggi sparsi sul territorio a dover svolgere quindi gratuitamente i lavori di manutenzione (per il distretto di Belluno: questo era solo uno degli oneri personali a cui gli abitanti del contado erano sottoposti: leggi anche il Post 52). Ogni Pieve (circoscrizione territoriale) aveva la responsabilità di tenere in acconcio le strade del suo territorio, e ripartiva il carico tra le Regole (organizzazioni di villaggio) che la componevano. Una situazione molto diversa quindi da quella che aveva garantito per esempio in età romana l’efficienza delle strade per cui l’Impero è famoso. E un altro fattore differenzia il Medioevo rispetto all’Età antica: la frammentazione delle vie di comunicazione. 

Mentre nel I sec. d. C. una Via come la Claudia Augusta (quale che fosse il suo tracciato) faceva capo per tutto il suo percorso, dall’Adriatico alla valle del Danubio, a un’unica entità statuale, la Strada Regia nel tardo Medioevo è frammentata in tanti piccoli stralci di pochi chilometri di competenza di tante città e comunità diverse. Anche l’espansione veneziana all’inizio del ‘400, che unifica tutto il tratto dalla laguna ad Ampezzo, non cambia la situazione, perché la gestione delle strade viene lasciata ai singoli domini: la Strada d’Alemagna rimane competenza della Podesteria di Serravalle fino a Santa Croce al Lago, di quella di Belluno fino alla Gardona, della Magnifica Comunità di Cadore fino ad Ampezzo, da dove si inoltra in Tirolo.

È anche da sfatare il mito che sia stata la propensione di Venezia ai commerci via acqua a causare questa incuria per le vie di terra: la situazione era analoga anche nei territori confinanti. Dopo la conquista di Ampezzo da parte degli Asburgo nel 1511, ad esempio, non solo la manutenzione continuò a gravare sui locali, ma anzi, l’onere che prima era sostenuto da tutti gli abitanti del Cadore si trovò a gravare per intero sulle spalle degli ampezzani. Va da sé che il tratto di Strada Regia interessato (e di cui parleremo tra poco) continuò a versare nelle stesse condizioni del periodo veneziano. [4] Insomma, all’epoca non circolavano quelle bellissime foto che mostrano la differenza del manto stradale al confine tra provincia di Belluno e Trentino – Alto Adige.

Resta aperta però un ulteriore domanda: se la Strada Regia era percorsa verso nord da un flusso di grano e vettovaglie che si dirama in tanti rivoli diretti a rifornire le varie zone del Bellunese, qual è il flusso economico inverso, che permette alla montagna di acquistare biave e vino? Lo sbilanciamento nelle importazioni viene compensato da varie esportazioni. Il Bellunese è nel Medioevo una regione ricca di materie prime: pietra, miniere, boschi sono la fonte economica principale della zona. Chi percorre verso nord la Strada Regia che costeggia il Piave da Ponte nelle Alpi a Perarolo di Cadore vede continuamente scendere in senso opposto, lungo il fiume, zattere su zattere. A loro volta esse vengono caricate di varie merci, come il carbone e la legna da ardere, il ferro di cui abbiamo parlato sopra, macine di pietra e molti altri manufatti. 

Ma è risaputo che la principale di queste merci è il legname. Vale quanto ha scritto lo storico Gigi Corazzol parlando del Brenta: «I tronchi, le tavole, la legna da ardere che discendono la corrente […] sono la pompa che fa risalire su fino alle ultime valli cereali, tessuti, vino, acquavite e quant’altro.» [5]

Il castello di Botestagno tra ‘4 e ‘500 in uno schizzo di Joerg Koelderer. In basso a destra la Strada Regia. Fonte: musei.regole.it


I viaggiatori e le merci dirette nell’Impero procedono invece fino a Valle di Cadore, e risalgono la valle del Boite fino a Cortina e oltre: solo il Passo di Cimabanche li separa dal Tirolo, ma per raggiungerlo bisogna superare un tratto particolarmente difficoltoso. A sorvegliarlo sorge il Castello di Botestagno. Frate Felix racconta che «le valli sottostanti sono del tutto impervie, così che chi vuole passare deve necessariamente salire fino alla fortezza e la via pubblica s’inerpica a precipizio verso l’alto, tanto che i carri da trasporto vengono spinti su con enorme fatica.» [6] A differenza del tracciato della strada attuale, che fa un percorso molto più lungo e dolce, la strada medievale saliva quasi in linea retta fin sotto la roccaforte, praticamente imprendibile per la sua posizione. Il dislivello dalla base del colle e il castello, di 200 m, veniva percorso in 800 m di tracciato stradale, mentre l’attuale percorso si estende per 2.500 m. [7] Da Cimabanche, la strada si snodava fra varie valli, diretta al Brennero e oltre, fino a raggiungere Innsbruck.


Note

[1] Imperio, Loredana – Moz, Patrizia, Vecchi e nuovi percorsi della Strada Regia dalle mappe veneziane, napoleonica ed austriaca (tratto da Piazza Flaminio a San Floriano), in La strada Regia di Alemagna, a cura del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Vittorio Veneto, De Bastiani, 2008, pp. 131-158, p. 157.

[2]  Ivi, pp. 136-137.

[3] Ibidem

[4] Per tutta la questione, cfr. Franzolin, Monia, Sulla Strada Regia di Alemagna, Crocetta del Montello, Terra Ferma Edizioni, 2012, pp. 89-97.

[5] Corazzol, Gigi, Cineografo di banditi su sfondo di monti. Feltre 1634-1642, Milano, Unicopli, 1997, p. 221.

[6] Franzolin, Sulla Strada Regia cit., p. 142.

[7] Imperio – Moz, Vecchi e nuovi percorsi cit., p. 59.


[Nic]


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