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Post 87 - La Città di Ghiaccio

 

Figura 1 (Immagine dell’articolo). Ritratto del tenente Leo Handl eseguito da Francesco Rizzi - dal libro “Ghiaccio Rovente”.


La Marmolada, o Regina delle Dolomiti, sita fra la provincia di Belluno e quella di Trento, è il gruppo montuoso più alto della regione con i 3343 m s.l.m. di Punta Penia ed ospita il più grande ghiacciaio delle Dolomiti. Fu a principi dell’Ottocento che ebbe inizio la stagione alpinistica sulla Marmolada, prima da parte di alpinisti locali e poi via via da parte di quelli stranieri. Questi, affascinati dalle guglie, dalle pareti e dal ghiacciaio dell’inviolato colosso montuoso, realizzarono nella seconda metà del secolo la “conquista” da parte dell’uomo delle incantevoli quanto insidiose vette del gruppo montuoso.

Figura 2. Soldati al lavoro nella Città di Ghiaccio - dal libro “La Città di Ghiaccio”.

Con il sorgere del nuovo secolo, cominciarono sul massiccio (allora zona di confine fra il Regno d’Italia e l’Impero austro-ungarico) anche attività di tipo alpinistico-militare quali esercitazioni scialpinistiche, ricognizioni e scalate, attuate dai rispettivi eserciti.

Figura 3. Soldati attraversano un crepaccio grazie ad una passerella - dal libro “Con gli alpini sulla Marmolada, 1915-1917”.

Con lo scoppio del primo conflitto mondiale la Regina delle Dolomiti non venne risparmiata e divenne anzi teatro di cruenti scontri fra i due eserciti e di lotta comune per la sopravvivenza contro un ambiente estremo, che, specialmente durante la stagione invernale, era scandito nelle sue temperature glaciali da forti nevicate e frequenti slavine.

Figura 4. Ponte sospeso su un profondo crepaccio - dal libro “La Città di Ghiaccio”.

E’ in questo contesto che il giovane tenente ed abile alpinista di Innsbruck Leo Handl (1887-1966), facendo propri gli studi ingegneristici compiuti presso l’università e l’esperienza bellica in quota, ebbe una geniale idea destinata a passare alla storia: quella di costruire la cosiddetta Città di Ghiaccio.

Quest’idea nacque durante una ricognizione notturna nel maggio del 1916, quando Handl e alcuni dei suoi soldati vennero sorpresi e bloccati dal fuoco di sbarramento italiano. Essi riuscirono a salvarsi raggiungendo con fatica un crepaccio e calandosi al suo interno. Una volta esploratolo ed individuato un poderoso ponte di neve, pensò che sarebbe stato più pratico e soprattutto sicuro costruire una galleria nel ghiaccio per poter raggiungere ed approvvigionare la tanto contesa postazione austro-ungarica “S” (da ‘scharte’, ovvero ‘forcella’), nota agli italiani con il nome di ‘Forcella Vu’ (Forcella Vesura). Le postazioni austro-ungariche in vetta e quelle più avanzate erano infatti costantemente soggette al tiro italiano, che spesso e volentieri bloccava i rifornimenti e gli spostamenti delle truppe anche per più giorni consecutivi.

Figura 5. Punto scivoloso di una galleria in pendenza attrezzata con scale in legno- dal libro “La Città di Ghiaccio”.
Fu così che a partire dallo stesso mese il tenente iniziò ad esplorare i cunicoli, i crepacci ed i seracchi del ghiacciaio e a sperimentare tecniche di scavo sul ghiaccio, sia manuali che con l’esplosivo. Nel primo caso ebbe un ruolo chiave il sergente Weber, che avendo lavorato per molti anni in miniera fu in grado di costruire trivelle e altri strumenti utili allo scavo del ghiaccio. Nel secondo caso invece si optò per l’ecrasite, l’unico esplosivo, fra quelli testati, in grado di sbriciolare il ghiaccio causando tuttavia nelle gallerie, prive di aerazione, un forte e dannoso ristagno di gas che imponeva frequenti interruzioni dei lavori. 

Grazie al determinante appoggio del maggiore Bilgeri, esperto alpinista e sciatore, che fornì mezzi e uomini per il progetto, e alle consulenze con importanti glaciologi, ebbero inizio i lavori. Quando non fu possibile usare l’ecrasite, si avanzò con il lavoro manuale e con le perforatrici, scavando fino a sei metri di gallerie al giorno. Vista però la frequente carenza di esplosivo, si ricorse più volte a quello italiano, recuperandolo delle bombe inesplose lanciate sulle postazioni austro-ungariche. 

Figura 6. Galleria attrezzata con cordini metallici - dal libro “La Città di Ghiaccio”.
Figura 7. Soldati in posa su un passaggio esposto della Città di Ghiaccio - dal libro “La Città di Ghiaccio”.

Il ghiaccio asportato veniva trasportato con slitte o tramite scivoli in lamiera, grazie anche ai dislivelli, verso crepacci, in cui veniva gettato, senza lasciare alcuna traccia delle attività di scavo nel ventre del ghiacciaio. Si costruirono ponticelli e passerelle sui crepacci da attraversare, e vennero attrezzati con scale e corde o cavi metallici i punti più esposti dei camminamenti e più in generale quelli più scivolosi e pericolosi, affinché potessero essere attraversati con maggiore sicurezza. Oltre a questo, venne predisposto che una squadra di guide alpine monitorasse gli spostamenti del ghiacciaio, così da poter prevenire il più possibile i rischi dovuti al moto continuo dello stesso, e da poter attuare un ancor migliore azione di manutenzione di quanto costruito e scavato, in particolare dei ponti, delle passerelle e delle gallerie.

Figura 8.  Schizzo della pianta della Città di Ghiaccio eseguito da Leo Handl - dal libro “La Città di Ghiaccio”.

In poco più di un anno si passò da pochi metri scavati ad un’articolata struttura di circa 12 chilometri nel ventre del ghiacciaio, che collegava postazioni sia fra loro che con l’esterno, e che garantì ai soldati un riparo dal fuoco italiano e dal freddo oltre che a vantaggi sul campo di battaglia. Nonostante le frequenti quanto infruttuose operazioni di ricognizione attuate dall’aviazione italiana, solo in un’occasione una granata italiana esplose nella Città, causando la morte di due soldati, ma fu un caso isolato, come anche lo scontro avvenuto con l’intercettazione da parte degli italiani di una galleria austro-ungarica.

Figura 9. Ricovero nel ventre del ghiacciaio - dal libro “La Città di Ghiaccio”.
Per quel che concerne invece la protezione dal freddo, all’interno del ghiacciaio la temperatura restava stabile attorno a zero gradi, garantendo una protezione contro le bufere di neve e le rigide temperature, che all’esterno in inverno spesso toccavano anche i trenta gradi sotto allo zero. 

All’interno della Città di Ghiaccio vennero costruiti ricoveri, sia per gli ufficiali che per la truppa, latrine, depositi per i viveri, per il legname, per le munizioni, per le granate a gas, un’infermeria, un ambiente per il trasformatore, uno per il motore delle perforatrici, una centrale telefonica, postazioni, osservatori e quindi quanto potesse risultare utile per lo svolgimento della vita dentro al ghiacciaio in tempo di guerra.

Figura 10. Soldati in un momento di svago nella Città di Ghiaccio - dal libro “La Città di Ghiaccio”.

Come in una vera e propria città, vennero dati nomi ai crepacci, agli ambienti e così anche ai percorsi delle gallerie, ponendo frecce e pali dipinti di giallo fosforescente per meglio evidenziare i percorsi con scarsa o assente illuminazione. Questo perché le gallerie erano illuminate da lampade a petrolio o acetilene, che assieme alle stufe rendevano particolarmente insalubre l’aria, a causa delle pessime condizioni di tiraggio dei fumi, che tendevano a ristagnare se non a riscendere nei ricoveri e nelle gallerie. Solo momentaneamente vennero installate le lampadine ad incandescenza, grazie all’apporto di corrente elettrica proveniente dalla centrale di Roia (Canazei), che tuttavia vennero rubate dai prigionieri russi in corvee poco tempo dopo, facendo tornare l’illuminazione precedente fino alla fine dell’utilizzo della Città.

Figura 11. Costruzione di un ricovero nel fondo di un crepaccio - dal libro “Ghiaccio Rovente”.
La Città di Ghiaccio, dopo essere stata in parte smantellata di ciò che ancora poteva risultare utile, smise di essere abitata all’indomani di Caporetto, quando le truppe italiane cominciarono a ripiegare e quelle austro-ungariche ad avanzare. Quello che rimase venne inghiottito dal ghiacciaio, che con il suo instancabile moto alterò, nascose e talvolta distrusse le opere costruite e gli scenari bellici, facendo tornare a regnare la natura dove per molto tempo si consumarono le tragiche vicende dell’uomo, di cui ancor oggi si vedono le tracce. 

[Trinceo]

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