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Post 76 - Tancredi e Murer

Foto 1. Senza titolo (Diari Paesani). T. Parmeggiani.


Tancredi Parmeggiani (1927-1964) e Augusto Murer (1922-1985) furono due artisti che interpretarono la loro epoca con mezzi e poetiche opposte.

Entrambi vennero influenzati dalla grigia atmosfera esistenzialista: Tancredi le contrappose una disperata vitalità grafica e pittorica; Murer la assecondò partecipando al dramma degli uomini, soprattutto dei soldati e dei minatori dell’Agordino. Fu infatti partigiano nella zona di Falcade e venne sempre considerato un selvaggio dalla critica anche a causa del forte legame col territorio che lo rendeva restio a frequentare le grandi città. I suoi disegni e le sue sculture abbondano di figure che evocano l’impotenza di fronte alla crudeltà. Rende le superfici di legno o bronzo tormentate e lacerate, fissando le inquietudini umane nella materia. Le sue opere, comprensibili al primo sguardo, sono un richiamo alla lotta per la libertà.


Foto 2. Testo del catalogo della mostra alla Galleria del Naviglio 1953

Al contrario uno dei sogni di Tancredi fu quello di prendere parte alla scena artistica americana legata all’espressionismo astratto, e riuscì a partecipare a qualche mostra negli USA grazie all’aiuto dell’eccentrica Peggy Guggenheim. La sua ricerca si fondò su una continua sperimentazione legata alla natura e all’idea di uno spazio curvo e non misurabile.

Partiva dall’elemento “punto”, nucleo energetico che si allarga verso l’infinito, per conquistare nuove immagini di natura. Una delle sue fasi figurative è caratterizzata dalle Facezie, creature visionarie che manifestano l’allucinazione del mondo, mentre i fiori (eseguiti da donne lavoratrici) esprimono simbolicamente il fatto che siamo tutti alienati.

Foto 3. Facezia (matto flaccido). T. Parmeggiani.


Fu un uomo intraprendente e inquieto che considerava Feltre il suo rifugio per i momenti in cui era più depresso.


Foto 4. Senza titolo (natura vergine). T. Parmeggiani.

Tancredi disegnava in continuazione, su ogni genere di supporto: per lui era il metodo più spontaneo per esprimere concetti e idee. Fu un artista particolare, intraprendente e inquieto. Studiò a Venezia, dove per molti anni trovò un ambiente vivace e stimolante, ricco di dibattiti e occasioni di confronto, in un’atmosfera di rinnovamento che nel 1945 iniziava ad aprirsi anche a ricerche artistiche internazionali. Frequentava molte gallerie ed era così assetato di conoscenza che provò a raggiungere clandestinamente Parigi nel 1947, ma venne presto rimpatriato. Ebbe modo di conoscere gli artisti più innovatori della sua epoca grazie alla Biennale del 1948 in cui fu esposta una retrospettiva di Pablo Picasso, la collezione di Peggy Guggenheim sulle avanguardie e soprattutto poté vedere per la prima volta l’opera dei pittori americani protagonisti dell’action painting e dell’espressionismo astratto, come Pollock e Rothko, che ebbero sicuramente un ruolo fondamentale nella sua scelta di aderire all’arte non figurativa.

Foto 5. Manifesto del movimento spaziale per la televisione 17 maggio 1952

Nel 1952 firmò il Manifesto del Movimento Spaziale per la televisione, il cui padre fu Lucio Fontana. Gli spaziali ambivano a rinnovare l’arte a partire dal concetto di spazio che grazie alle scoperte scientifiche e artistiche (Cubismo, Futurismo…) veniva percepito in un modo nuovo. 

Nel 1951 aveva conosciuto Peggy Guggenheim che fu la grande svolta nel suo percorso: gli fornì un luogo dove lavorare e grazie a lei le sue opere finirono nelle collezioni di musei internazionali. In questo periodo sviluppò l’idea di spazio a partire dall’elemento 'punto', inteso come nucleo energetico che viene dissociato, allargandosi verso l’infinito e facendo quindi perdere alla geometria tutta la sua rigidità, creando composizioni “galattiche”. Peggy, infatti scriveva: «Tancredi crea una nuova filosofia poetica per coloro che non posseggono né telescopi né razzi: quanto siamo fortunati noi che abbiamo tali cristallizzazioni da trasportarci sani e salvi verso altri mondi». 

Foto 6. Aspirazione a New York. T. Parmeggiani.


Nel 1952 realizzò l’opera dal sottotitolo 'Aspirazione a New York', che sintetizza il suo percorso e rappresenta il suo rapporto con l’ambiente americano. Gli Stati Uniti, infatti, rimasero sempre un’aspirazione, un traguardo che riuscì a sfiorare con qualche mostra sporadica. Inoltre, il carattere così autonomo della sua arte non lo portò mai a identificarsi del tutto con la scena americana, ma solo a percepire delle affinità. 

Nel 1961 visitò la mostra dei Combine painting di Robert Rauschenberg che furono da stimolo per delle nuove sperimentazioni col collage. Una sorta di giornali senza parole di grande delicatezza, in risposta all’invasione consumistica, drammatica, aggressiva e trash dei Combine painting Da qui germinò il ciclo dei Diari Paesani, che ricreano un’atmosfera piena di appartenenza empatica al paesaggio italiano, reale e ideale: «Voglio rivelare quella realtà dello spirito che ho trovato tornato dalla Svezia dove ho lavorato sotto un occhio nuovamente dimensionato ed ho cercato di imprimervi quell’atmosfera così italiana e, più esattamente, veneto-lombarda di cui è così ricca la nostra giornata». Passò, infatti, l’estate del ’59 in Svezia e Norvegia: approfondì le indagini luminose essendo a contatto con la luce fredda del Nord e riscoprì la fluidità allucinata di Munch e le creature di Ensor. Lo interessarono le figurazioni brulicanti di nuove creature metamorfiche, nella ricerca di una nuova umanità possibile. 

Foto 7. Senza titolo (giornali senza parole). T. Parmeggiani.

A Parigi prese posizione contro le discriminazioni e le sofferenze dovute alle tensioni della guerra di Algeria: «Forse la sofferenza che vedevo a Parigi mi ricordava un po’ quella che vedevo nella mia prima giovinezza, sortendo vecchie ragioni alienanti, perciò cominciai a inserire dei personaggi nei miei quadri, sempre nei limiti delle mie basi formali che manifestavano il mio pensiero dominante: uscivano dalla penna, o dal pennello, erano inseriti nello spazio, erano espressioni di impressioni emotive figurate, così come quelle di prima erano impressioni emotive non figurate». Così nacquero le Facezie, visionarie creature che traducevano l’allucinazione del mondo, nel tentativo di cogliere e restituire gli aspetti di umana autenticità e rilevanza. Tancredi le definì «uno scherzo fatto con un po’ di leggerezza e un tantino di amarezza».

Punto culminante del 1962 furono i Fiori, simbolo della solidarietà: «Questi quadri volevano esprimere simbolicamente, e nel modo più semplice che avevo trovato, il fatto che siamo tutti alienati: per far questo usavo fiori eseguiti a mano da donne lavoratrici, assieme ai miei colori e ai fiori dipinti da me perché volevo mostrare che c’era gente che lavorava come me ma guadagnava molto meno». Le ultime opere mostrano una grande oggettività nell’estremo tentativo di indagine della realtà, nel disperato sforzo di appropriarsene. 

Foto 8. Piazza dei Martiri a Belluno. A. Murer.

Il primo ottobre del 1964 la sua salma venne recuperata dal Tevere.

Contemporaneo, ma opposto a Tancredi,  fu Augusto Murer. Nato a Falcade, le rimase sempre fedele esprimendo attraverso la sua opera il forte legame che aveva con il territorio, dimostrando così che si potesse fare arte anche senza frequentare assiduamente le grandi città. A Milano era considerato un personaggio particolare, per il suo aspetto e per il suo modo selvaggio di scolpire. 

Poco più che ventenne, aveva combattuto da partigiano sulle montagne tra quelle «foreste in cui radici, tronchi, e pietre si confondono in un groviglio che corrisponde quasi all’alba della creazione» e vedeva «nei tronchi agitarsi tutte le altre forme di vita, già con i loro nodi nervosi, le loro vene ricche di linfe e di sangue, le loro mani protese verso l’alto in un anelito di libertà». Approfittava dei momenti di riposo per appoggiarsi ad un albero per riempire i quaderni di disegni che ritraevano i gesti e le espressioni delle compagne e dei compagni di lotta, che poi pubblicava in giornaletti firmandosi 'Artista della Brigata'. 


Foto 9. Monumento ai caduti a Vittorio Veneto. A. Murer.


Faceva quindi parte di quella corrente realista che si opponeva al formalismo astratto. Volgeva lo sguardo alle genti delle miniere agordine di Val Imperina, aveva scelto di vivere dove i boschi e le montagne conservano la magia misteriosa che sentirono i primi esseri pensanti apparsi sulla terra. Non frequentare quotidianamente gli ambienti artistici di spicco gli aveva permesso di ascoltare la sua vera indole nel rispetto dei materiali. 

Murer visse gli anni della Prima Repubblica, orgogliosamente 'fondata sul lavoro' dopo anni di lotte operaie e contadine. Il lavoro diventò per lui tema centrale, soprattutto nelle sue forme più umili. Le miniere ricordano i sotterranei bombardati dai nazisti, luoghi in cui i giorni sono notti che sembrano non finire mai. Scendere significava cimentarsi con l’oscurità, con la natura che si osa sfidare e che può cancellare da un momento all’altro chi l’ha violata. 

Foto 10. A. Murer

Mentre realizzava la scultura di Orfeo insieme al figlio gli disse: Questa opera la sto modellando per la mia tomba. «Voglio che sopra la terra che mi coprirà ci sia questa figura di Orfeo. Vedi,  questa figura all’apparenza dolce e spensierata mi riporta a quando, più giovane, scendevo in miniera. In quella discesa provavo angoscia, non c’era spazio per il romanticismo, per la poesia. La realtà era così cruda da non lasciare tempo a divagazioni estetiche. Disegnavo ciò che vedevo e poi la tragedia di Marcinelle, così lontana, ma vicinissima alla realtà della Valle Imperina. Nessuno era in grado di aiutare chi rimaneva bloccato in miniera e le donne che aspettavano fuori non potevano che attendere nella paura. Orfeo rappresenta il dramma della speranza irrealizzabile. Egli infatti discende agli inferi per salvare Euridice, ma quando vede la luce della salvezza ed è convinto di averla liberata dalla morte non resiste alla tentazione di voltarsi e per troppo amore la perde. Ecco, quegli uomini, quelle donne, io, siamo come Orfeo: viviamo la speranza svanita»

Foto 11. Minatori. A. Murer.


Questa drammatica dichiarazione suggerisce una sorta di resa di fronte agli eventi dolorosi, ma nel caso di Murer acquisisce anche una componente autobiografica: si riferiva metaforicamente alla sua malattia, che stava esaurendo il suo tempo di vita. 

La sua opera non si presta ai giochi di parole della critica più raffinata: è comprensibile al primo sguardo, non vuole ingannare ed esprime la sua epoca in modo chiaro. Le lacerazioni così inconfondibili incidono sulla materia creando ferite, e il contorcersi delle membra di un Guerriero morente è colmo della storia di tutti i tempi, riproduce una vicenda antichissima e quotidiana. È il dolore inflitto all’uomo non per dannazione, ma per volontà di altri uomini, è una battaglia contro la violenza.

Foto 12. Tancredi Parmeggiani

Foto 13. Augusto Murer

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