All’Archivio Storico Comunale di Belluno, tra le pergamene medievali e i faldoni del governo asburgico, è conservato un esile fascicoletto: la “Informazione sulla città di Belluno e territorio fatta l’anno 1561 dagli Inquisitori di Terraferma”. Inquisitori? Niente a che fare con Sant'Uffizio, eresia, roghi. Si tratta di una magistratura veneziana attiva per quasi un secolo, a partire dalla metà del ‘500, dall’incarico per noi piuttosto interessante e che per essere capito necessita di un piccolo inquadramento.
Alla metà del Cinquecento il cosiddetto Dominio da Tera (ovvero la metà continentale italiana dello Stato veneto) è una delle realtà amministrative più complesse d’Europa, ma anche una delle più ricche e popolose. È composto da una miriade di piccole entità territoriali diverse aggregate sotto la Serenissima Signoria nel corso di secoli di espansione, fino a comprendere territori che vanno dall’Adriatico alle antiche città padane, Treviso, Verona, Bergamo, e più oltre ancora fino a Feltre e Belluno, ultima propaggine a nord del mondo comunale medievale, spingendosi a includere le valli dolomitiche, nel cuore ormai delle Alpi.
Per governare tale vastità serve un apparato amministrativo mastodontico imperniato sulla capitale, Venezia, che deve fare i conti con un mondo sideralmente distante dalla razionalizzazione, l’efficienza e l’uniformazione degli Stati odierni: il Dominio da Tera è composto da decine di podesterie, vicariati, giurisdizioni feudali (contee), comunità rurali con i loro particolari Statuti, consuetudini e privilegi stratificatisi nei secoli.
Per Venezia è importante avere dei funzionari itineranti che le facciano da occhi, che periodicamente percorrano tutta la Terraferma riportando al Senato lo stato dei domini: amministrazione, fiscalità, giustizia, economia, demografia. Tutte queste informazioni sono presenti nella relazione stilata il 31 maggio 1561 dai Sindici Inquisitori, che in quei giorni avevano raggiunto il Bellunese dopo aver attraversato nei mesi precedenti il resto della Terraferma. Ma nel resoconto, molto asciutto e inquadrato da stilemi retorici, trova spazio una nota un po’ diversa, più personale. In questo passaggio si narra della situazione economica, e in particolare del settore agricolo e della disponibilità alimentare del nostro territorio: nel discorso si innesta però una parentesi con tono differente: «Non voglio tacere che alle montagne la maggior parte delle famiglie oltra la carne che consumano assai [quanta in realtà? siamo così sicuri? n.d.r.], usano per riparar la vita loro di far seccar la ortica et le scorze di rape, et nel tempo del Verno per isparmiare fanno uno foglio di pasta grande quello empiendo di formaggio botiro et di dette ortiche et scorze di rape, le quali fanno tenere et molle col latte, et rassettatelo nella padella lo fanno cuocere nel forno, et di quello mangiano et si nutriscono buona parte dell’anno senza altro pan, né vino…».
Una versione di pasticcio molto antica, certo ideata in una situazione di estrema povertà, in cui per lo scarseggiare dei grani e del vino bisognava accontentarsi con quel poco di farina che si aveva. E come farcitura? ortiche e bucce di rapa. Un quadro piuttosto miserabile.
Come possiamo immaginare che il patrizio veneziano che scrive sia venuto a conoscenza di questa informazione sull’alimentazione invernale dei bellunesi? Non in modo diretto: il suo soggiorno deve essere stato necessariamente molto breve, e per di più si è svolto a fine maggio. Diverso sarebbe se avesse ricoperto la carica di Rettore: in tal caso avrebbe avuto a disposizione sedici mesi di governo per conoscere più approfonditamente la vita dei serenissimi sudditi. Ma proprio per la brevità del suo passaggio attraverso i nostri territori questa usanza potrebbe averlo colpito particolarmente. Ecco come prosegue il testo: «…et di queste ortiche et scorze di rape ne ho visto io secare gran quantità cavalcando il paese». Non andiamo forse lontano dal vero se immaginiamo che, mentre attraversava la campagna, l’Inquisitore abbia notato fuori dalle abitazioni numerosi graticci su cui queste ortiche e scorze di rapa erano poste ad essiccare, e, perplesso, ne abbia chiesto spiegazione.
[Nic]
Note
1. Il Bellunese ha dovuto fare i conti per secoli con la cronica carenza di cereali, le cosiddette biave, di cui il territorio sterile non riusciva a fornire neppure una metà del fabbisogno annuo alla popolazione. Per alcune considerazioni vi rimandiamo al nostro Post 59, che tratta l’argomento.
Fonti e bibliografia:
ASCB, Comunità di Cividal di Belluno, Informazione sulla città di Belluno e territorio fatta l’anno 1561 dagli Inquisitori di Terraferma, n. 874 f. m..
Matteo Melchiorre, Conoscere per governare. Le relazioni dei Sindici Inquisitori e il dominio veneziano in Terraferma (1543-1626), Udine, Forum, 2013.
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