Ruderi di Casera Vallazza. Foto da tallulahtrekking.it. |
L’avvicinamento
Quali sono i primi resoconti di risalite delle montagne feltrine? Quali percorsi i pionieristici escursionisti affrontavano un tempo per risalire i “dolci” pendii delle Vette?
Il primo resoconto in assoluto a noi giunto è quello di Antonio Tita, erborista veneziano. Si tratta di un testo poco dettagliato risalente al 1713, che si limita ad introdurre l’ampia descrizione riservata dall’autore alle 167 specie vegetali da lui raccolte.
Per avere un’idea chiara di cosa volesse dire inerpicarsi nel Settecento sulle Vette Feltrine per i viaggiatori provenienti dalla Pianura Veneta, bisogna leggere il resoconto molto romanzato di Gian Girolamo Zannichelli, altro erborista veneziano mosso dalla volontà di arricchire un erbolario. La sua spedizione iniziò domenica 9 luglio 1724, in compagnia di Pietro Steffanelli e altri quattro uomini stipendiati circa 8,40 lire del tempo per un totale di circa 260 lire in otto giorni.
La prima tappa prevedeva di raggiungere Quero per mezzo di una «sedia», ovvero un calesse. La partenza da Venezia deve essere stata all’incirca tra le sei e le sette del mattino, perché alle nove ci fu la prima tappa a Mestre per la messa in duomo, alla fine della quale si diressero verso Treviso e da lì a Postioma, dove poterono riposare, pranzare e, come sottolinea Zannichelli, vennero trattati piuttosto bene e a buon prezzo.
In serata giunsero a Maser (riportato con il nome “Masier”), dove poterono dormire da «Nani Padron di Steffanelli». Altro dettaglio di colore: qui incontrarono un anziano fattore di nome Carlo che colpì l’attenzione di Zannichelli perché nonostante fosse completamente senza denti mangiava più di lui.
Il giorno dopo, il 10 luglio, partirono alla volta di Quero. Giunti sul posto sostituirono la «sedia» con tre asini e pranzarono malamente. Dopo questa esperienza poco piacevole, si diressero in direzione di Pedavena. Vi giunsero in serata, e vi si trattennero per la notte, alloggiando in una stanza al pian terreno. Zannichelli annota: la pulizia era buona. Ebbero modo anche di conversare con il cacciatore Gioseffo Porta e di scoprire da lui l’esistenza di una pianta prodigiosa che cresceva nella zona.
La salita
La salita vera e propria ha inizio da qui: l’11 luglio, di buon’ora, partirono alla volta di Aune, dove arruolarono anche un nuovo membro per la compagnia: un locale di nome Zuane che conosceva i sentieri della zona. Pranzarono con prosciutto e formaggio acquistati in loco, pane raffermo, vino, frutta e salumi che portavano con sé. Insomma, noi diremmo che pranzarono al sacco. A stomaco pieno diedero inizio alle attività di ricerca botanica, dirigendosi prima di tutto in una valle chiamata Valdella. Rinvenimento degno di nota: una pianta di Farfaraccio che attirò molta attenzione per le sue dimensioni.
La notte, passata all’osteria di Aune non fu delle migliori: come riporta il capo spedizione, passarono la notte quasi in bianco per il numero di pulci che si trovavano nei letti. La mattina del 12 luglio si incamminarono finalmente per il monte Vallazza, e durante l’ascesa raccolsero numerosi aconiti — alcuni anche in fiore —, tra questi il napello (Aconitum napellus) e l’antora (Aconitum anthora). Raggiunsero Casera Vallazza per mezzogiorno: mangiarono quel poco che avevano e della ricotta fresca con i casari, usando delle lastre di pietra come tavoli e sedie. Purtroppo la casera era troppo piccola per ospitare i viaggiatori durante la notte: furono così costretti a volgere verso Malga Monsampian (riportata come Morsupiano). Dopo aver percorso il sentiero che costeggia il Vallazza, con grande fatica, sotto la pioggia e la grandine, giunsero a Monsampian. Ma qui lasciamo spazio alle parole di Zannichelli:
«Doppo d’haver caminato molto si trovassimo in luoco dificilisimo, e scoperto, agrediti da un temporale che uscì da quelle Valli Tedesche che ne pose tutti in aprensione, mentre cominciò una tempesta minuta, e un vento forte che ci minaciava la volata in que oridi precipitij. Non ostante contro questa malignità seguitassimo il nostro lentissimo camino percossi, bagnati e vacilanti nel piede, incaminandosi verso Morsupiano ove meditavamo la nostra stazione notturna, onde ascendendo e discendendo con novi replicati attachi di gragnuola passassimo sopra neve nella valle che era alta un huomo; infine giunsimo alla nominata Casara, e per nostra mala sorte era sfabricata né vi restava luoco per acomodarsi a coperto. Lascio considerare qual era il disordine ne nostri cuori; bagnati, inlanguiditi dalla fatica, agiaciati nel esercitio, e dover partire passar altro monte per andar nella Casera delle Vette [...]».
Malga di Monsampian. Foto da volpidelvajolet.it
Come abbiamo potuto leggere, un’avventura! Oltre al faticoso viaggio verso Monsampian, si aggiunse una tempesta, per poi ritrovarsi bagnati fradici all’imbrunire la beffa dello scoprire la malga abbandonata e diroccata («sfabricata»). Solo allungando il cammino riuscirono a mettersi al coperto alla Malga delle Vette
Il giorno dopo, Steffanelli si recò sul Monte di Luna (dove trovò del botrico: Botrychium lunaria), e Girolamo invece verso il lago effimero posto sopra la forra della Faora per potersi — più prosaicamente — lavare dalle pulci.
Malga Vette Grandi. Foto da infodolomiti.it.
Dopo essersi congedati dai casari e averli ringraziati con numerosi doni, risalirono la Busa delle Vette giungendo al passo di Luna. Seguitarono poi fino alla cima del Monte Pavione, da cui con un cannocchiale riuscirono a scorgere all’orizzonte Venezia.
Da qui lungo l’altro crinale iniziarono la discesa. Il loro approdo alla civiltà era Aune, e per raggiungerla percorsero un sentiero noto allora come “Corda” — forse l’attuale Sentiero di Sant'Antonio —. Un sentiero difficile, ad uso dei pastori, stretto e coperto dai conoidi delle slavine. Con il supporto di Zuane che apriva il sentiero con una zappa, riuscirono in questo modo ad arrivare ad Aune. Passarono la notte nella taverna del paese, che, già nota per le pulci, questa volta li deliziò di una nuova compagnia: quella dei topi. Questa volta Girolamo dormì all’addiaccio. Il 14 lasciarono Aune per dirigersi a Feltre.
Lago effimero di Busa delle Vette. Foto da sovramonte.it.
La narrazione del rientro viene riportata molto brevemente, perché fu ripercorso a ritroso lo stesso tracciato dell’andata, salvo una breve e interessante considerazione sul Castelnovo di Quero. Zannichelli annota la presenza di due torri fortissime, sulle due sponde del Piave, e riporta della pratica di tirare la catena tra le due per bloccare il passaggio fluviale, che lui ritiene però poco probabile.
Il viaggio si conclude a Venezia, dove non può mancare un ringraziamento a Dio per il suo rientro a casa sano e salvo. Da questo racconto si possono trarre delle interessanti notizie, sia a livello climatico sia sulle vie d’accesso. Come abbiamo letto infatti, Zannichelli percorse due sentieri che hanno come base Aune. Quello dell’andata in salita non è descritto come particolarmente difficile: è dunque da presupporre che il gruppo avesse preso un sentiero tangente a Casera Prese per giungere alla Vallazza. Occorre però tenere conto che l’autore non è molto preciso nella descrizione dei luoghi di passaggio. In discesa invece, affrontarono il più esposto sentiero di Sant’Antonio, oggi munito di una corda per aiutare gli escursionisti. Un altro aspetto interessante è la presenza di molta neve quasi a metà luglio, talmente tanta che viene descritto un accumulo alto quanto un uomo in busa di Monsampian. Accumuli di questo tipo, sono al giorno d’oggi assenti durante il periodo estivo, salvo in quelle aree dove nicchie riparate dal sole ne consentono la sopravvivenza anche fino all’inverno successivo.
Testimonianze di questo tipo non devono portarci a credere che il clima in passato sia stato sempre così freddo. Il periodo in cui Girolamo fece la sua ricognizione cade durante la cosiddetta Piccola Era Glaciale, un momento in cui la temperatura mondiale si abbassò — per motivi non legati all’attività antropica — terminato con l’inizio delle rivoluzioni industriali. Durò circa quattrocento anni, tra il XIV e il XIX secolo, e proprio in questa fase storica sono molte le testimonianze di crescita delle coperture glaciali in ambito alpino.
Questo resoconto, che noi abbiamo riportato anche con una certa ironia, può comunque fornire informazioni interessanti, non solo dal punto di vista botanico, ma anche ambientale, etnografico e archeologico. Insomma, un tesoro di notizie che lo rendono un’interessante fonte storica.
[MattIki]
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