A partire dagli ultimi anni del ‘700 il bellunese fu colpito da un’epidemia che fu a stento riportata sotto controllo solo nei decenni successivi. Sembra quasi inutile dirlo, le guerre napoleoniche contribuirono moltissimo alla sua propagazione. La zona di diffusione non si limitò alla nostra provincia: Tirolo italiano (Trentino), Carnia, Slovenia furono sferzate dall’imperversare di questa malattia sinistra e misteriosa per la povera gente.
Nel bellunese era nota col nome di “Falcadina”, perché a Falcade si era registrato uno dei primi e più gravi focolai, e la voce popolare che aveva battezzato questo morbo riferisce anche che qui fu portata da una ragazza che rientrava da Fiume: si presentava «infetta nei pudendi da vasti ulceri e condilomatose escrescenze»; e da un giovane che lavorava in una fabbrica di cordami a Venezia. Nell’Agordino, epicentro dell’epidemia, il contagio raggiunse livelli altissimi.
Per i medici di allora non era un mistero cosa fosse la Falcadina: si trattava della sifilide, una malattia venerea provocata da un batterio, il ‘Treponema pallidum’, dell’ordine delle spirochete.
Essa si trasmette sia per via sessuale sia per essere entrati in contatto con i liquidi corporei di un malato, e di fatti uno dei principali problemi sottolineati nei rapporti medici del tempo fu la scarsa igiene delle persone e l’uso di abiti sporchi: «È così che la lingerie e gli altri più esteriori vestimenti portati lunga pezza da quei villici assai sporchi, ed insozzati dalla materia incrostata, o dalle sanie del contagio falcadino, toccati o in varia guisa maneggiato da individui sani, appiccarono a questi la malattia».
Solamente nel 1813 la prefettura di Belluno inizia a stilare una relazione sulla situazione epidemiologica, e nel 1822 Francesco I d’Austria — nel frattempo Belluno è diventata territorio absburgico — incarica il dott. Vallenzasca di allestire e dirigere un apposito ospedale a Noach (La Valle Agordina), che restò attivo fino al 1836.
[MattIki]
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